Ripartire dalla cultura del lavoro
Viviamo in un’epoca di incertezza strutturale e di profonda trasformazione sociale, in cui la gestione delle imprese deve contare soprattutto sulle persone, sulla loro capacità di sentirsi comunità, di essere una learning community capace di affrontare insieme cambiamenti che possono essere fonte di crescita collettiva, evitando che diventino la radice di nuove divisioni, pericolose per […]

Viviamo in un’epoca di incertezza strutturale e di profonda trasformazione sociale, in cui la gestione delle imprese deve contare soprattutto sulle persone, sulla loro capacità di sentirsi comunità, di essere una learning community capace di affrontare insieme cambiamenti che possono essere fonte di crescita collettiva, evitando che diventino la radice di nuove divisioni, pericolose per tutti.
Finita l’epoca in cui si poteva dare per fissa e fissata l’organizzazione della produzione e per scontata la crescita lineare della domanda, oggi – e sempre più in futuro – le stesse imprese sono chiamate a divenire luogo di elaborazione e innovazione delle relazioni umane che, poste in condizione di essere incubatrici di complementarità e creatività, diventano motore di una nuova crescita economica e sociale.
Oggi siamo in una fase in cui non ci si può limitare ad adattarsi al cambiamento: troppo veloci sono i cambiamenti per limitare noi stessi al ruolo di perenni inseguitori; diviene quindi necessario anticipare i cambiamenti e questo implica organizzazioni che permettano non solo di disporre di una rilevante capacità tecnica di controllo e utilizzo delle proprie specializzazioni operative, ma dispongano anche di capacità di visione, di saper vedere oltre l’esistente e di vederlo insieme.
Il lavoro sta cambiando e la produzione sta cambiando ancor più rapidamente, tuttavia è necessario mantenere la cultura del lavoro come asse fondante della vita collettiva e la cultura della produzione come perno dell’economia, proprio per non confonderci continuamente, sempre alla ricerca di nuovi punti di riferimento.
Il lavoro come fondamento stesso della Repubblica – come recita il primo articolo della nostra Costituzione – non è solo il lavoro fisico degli Anni 40, ma è oggi anche tutto quel lavoro intangibile che, generando un valore aggiunto per la comunità, deve essere inteso come bene comune, perché non solo sostiene una crescita materiale del Paese, ma diviene collante di dignità e appartenenza alla comunità nazionale. Anche la conoscenza va prodotta e quindi va intesa come lavoro, così come è evidente che le nuove forme di lavoro sempre più basate sulla conoscenza richiedono modalità di attuazione e quindi tutele diverse dal passato.
La Direzione del Personale come costruttore di comunità
Va indubbiamente rilevato che tutta la nostra normativa di tutela del lavoro è stata forgiata sulle modalità fordiste della produzione e quindi sulla fissità del rapporto tempo-luogo del lavoro, mentre oggi – domandatelo ai nostri ragazzi – tendono a emergere e a preferirsi modalità di lavoro che sfuggono alla fissità del luogo e alla rigidità dei tempi di lavoro, così come si rifiuta quella frantumazione e irrigidimento delle attività lavorative in mansionari, propri dell’epoca taylorista, che oggi sono il più serio limite all’innovazione e quindi alla competitività. Questo non significa che debbano venir meno le tutele del lavoro, ma che dobbiamo trovare modi di valutare, premiare, tutelare il lavoro con strumento normativi e regolatori adeguati alla nostra epoca. Questo esalta oggi il ruolo dei responsabili del lavoro e dei lavoratori nelle nostre imprese. I vecchi Direttori del Personale dell’epoca Fiat – quando il capo del personale era l’ufficiale di fureria di organizzazioni rigidamente strutturate – hanno lasciato il posto ai responsabili delle Human Resources. L’uso sistematico della sigla HR sembra quasi voler mascherare le difficoltà di transizione di un ruolo che da controparte del sindacato, in una organizzazione basata sul conflitto, deve muoversi necessariamente verso una nuova configurazione: il People manager. L’ambiguità e la ricchezza del termine inglese (“People” significa sia “persone” sia “popolo”) ci aiuta a cogliere il senso di marcia di questa nuova fase, gestori di persone che diventano popolo, non più gestori di relazioni individuali o di relazioni industriali, ma costruttori di comunità di missione in perenne ricerca e trasformazione, in cui il benessere della persona – non solo nella sua veste professionale – e delle persone come team diventano il motore di creatività e innovazione quindi di crescita per l’impresa e per il territorio di cui essere pienamente parte.Categoria: Scenari macroeconomici

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