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giovedì, 18 Settembre, 2025

Il management sussidiario come via per l’organizzazione creativa e sostenibile

La cultura del business è sempre più la cultura della società. Essa è ormai penetrata nella politica, nella scuola, nella famiglia, nella sanità. È dunque urgente che la business community prenda finalmente coscienza di questo suo nuovo ruolo, perché a più potere deve sempre corrispondere più responsabilità. Ecco perché non ha senso, oggi, (se mai […]
11 Novembre 2022
Di: Stefano Zamagni
11 Novembre 2022
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La cultura del business è sempre più la cultura della società. Essa è ormai penetrata nella politica, nella scuola, nella famiglia, nella sanità. È dunque urgente che la business community prenda finalmente coscienza di questo suo nuovo ruolo, perché a più potere deve sempre corrispondere più responsabilità. Ecco perché non ha senso, oggi, (se mai ne ha avuto) parlare di “shareholder value maximization” come fine dell’impresa: ricordiamo tutti la icastica affermazione di Milton Friedman del 1970, priva oltretutto di fondamento teorico. Le organizzazioni d’impresa sono organismi vivi che evolvono nel tempo. Parecchie trasformazioni sono buone; altre conducono al declino. Un lavoro recente di C. O’Reilly e J. Chatman, il cui titolo è già rivelatore della tesi ivi sostenuta (“Trasformational leaders or narcissists? How grandiose narcissists can create and destroy organizations and institutions”, California Management Review, 6, 2020), spiega come questo accada nella realtà, suggerendo anche un criterio per distinguere tra tipi diversi di leader. Su un piano solo lievemente diverso si pone la ricerca di Tomas Chamarro Premuzic, Professore di Psicologia alla Columbia University di New York dal titolo “Why do so many incompetent men become leaders?”, Harvard Business Review Press, 2019. Si legge che secondo i sondaggi di Gallup, il 75% dei lavoratori che lasciano il proprio posto di lavoro, lo fa a causa della leadership affatto inadeguata del loro superiore. Eppure, occorre prendere sul serio il benessere nei luoghi di lavoro, oggi diventati i principali luoghi di vita: il cosiddetto tempo libero, infatti, non è un surrogato del tempo di lavoro.

Taylor e il lavoratore come fattore produttivo

Come dovrebbe essere ovvio, le trasformazioni nel sistema sociale richiedono mutamenti altrettanto radicali del sistema aziendale. Ciò è soprattutto vero con il modello di organizzazione più ancora che con il modello di business. I metodi pensati in funzione del Taylorismo non solamente sono divenuti ampiamente obsoleti sotto il profilo dell’efficienza produttiva, ma sono oggi la causa principale del malessere e quindi della infelicità di chi lavora. L’idea centrale del Taylorismo è di rendere il lavoratore un fattore produttivo, in grado di adattarsi alle caratteristiche del ciclo produttivo, nella forma della catena di montaggio. Si legge nel libro di Taylor: “Uno dei primi requisiti per il lavoratore responsabile al lavoro d’altoforno è che sia così stupido da essere assimilato più a un bovino che a qualsiasi altra cosa”. Scriverà, nel 1922, Henry Ford (1863-1947), uno dei primi industriali di successo ad applicare il nuovo modello organizzativo: “Dobbiamo riconoscere la fondamentale diseguaglianza nelle doti delle menti umane. Per certi tipi di cervelli, il pensare è proprio una pena… Bisogna far imparare un solo atto  manuale, di cui anche l’uomo più stupido potrebbe appropriarsi in due giorni”.

La produttività dipende dalla motivazione verso il lavoro

Una prima (in terra d’America) timida presa di distanza dal Taylorismo è stata quella di Elton Mayo (1880-1949), sociologo di Harvard, curatore di una ricerca empirica svolta tra 1927 e 1932 e centrata sullo studio delle relazioni umane nei luoghi di lavoro. Questo studio segnò la nascita dello “Human Relations Movement”: motivazioni, rapporti interpersonali, condizioni sociali sono elementi essenziali da prendere in considerazione quando si progetta l’organizzazione del lavoro, dal momento che la produttività dipende in gran parte dalla motivazione verso il lavoro, piuttosto che dalle cognitive skill. La linea di pensiero delle Human Relations, subito criticata negli Usa, ha trovato, invece, nel Secondo Dopoguerra, positiva accoglienza in Giappone. Bisogna però arrivare al XXI secolo per registrare una proposta radicalmente alternativa al Taylorismo. Nel 2007, Brian Robertson, della Harvard Business School, ha pubblicato il volume Holocracy che riprende precedenti esperienze di successo, fra cui quella celebre di Olivetti. L’idea centrale, in buona sostanza, prevede di passare dall’approccio tecnocratico, tipico del Taylorismo, a quello antropocentrico che va oltre il concetto di gestione delle risorse umane a favore di quello di valorizzazione delle persone. È in tale contesto, che inizia a prendere forma lo Smart working (si badi, non l’Home working o il telelavoro) come nuovo modello organizzativo: l’evento pandemico ha fatto da cassa di risonanza di tale espressione, divenuta ormai popolare. L’olocrazia è il più avanzato dei sistemi di auto-organizzazione focalizzato sul lavoro da svolgere piuttosto che sulle persone che lo svolgono e dove il controllo è di tipo orizzontale anziché verticale.

La ragioni della crisi irreversibile del modello taylorista

Quale il fattore decisivo che ha portato alla fine del Taylorismo? L’avvento, a partire dagli Anni 70 della Terza Rivoluzione industriale (Internet economy) e successivamente della Quarta Rivoluzione industriale (Intelligenza Artificiale; Machine learning). La ragione è presto detta: se la creatività è oggi la forza vincente e se questa non è più, come in passato, di tipo individuale, ma di gruppo, è evidente che le forme di organizzazione necessarie per ottenere da ciascun lavoratore quella conoscenza tacita – nel senso della “tacit knowledge” di Michael Polanyi – di cui è portatore, non possano che essere basate sulle motivazioni e non già sulla adozione di raffinati schemi di incentivo e sulle strutture gerarchiche del potere. Un’organizzazione di tipo tayloristico non è culturalmente attrezzata per ridurre il rischio che l’impresa sia sorpresa da queste discontinuità. E chiudere la stalla quando i buoi sono scappati non è mai stata una strategia vincente! Infine, di una terza situazione mi piace dire. Sappiamo che, per ben note ragioni, si parla oggi di Economia circolare. Ma tale passaggio implica, per venire realizzato, un cambio di paradigma nella gestione d’impresa, oltre che un profondo ripensamento delle relazioni tra mercato, consumatori e risorse.

L’era del management sussidiario

Qual è il fondamento, per così dire ‘filosofico’, dell’olocrazia? La sussidiarietà circolare. L’universale riconoscimento del valore e della importanza della sussidiarietà si scontra oggi con una preoccupante caduta delle sue possibilità di attuazione pratica. Sono dell’idea che ciò dipenda, oltre che dal ben noto ritardo della cultura italiana su tale fronte, da una perdurante confusione di pensiero tra le tre versioni del principio in questione: quella verticale, che chiama in causa la regola di distribuzione della sovranità tra i diversi livelli di governo (in buona sostanza, si tratta del decentramento politico-amministrativo); quella orizzontale che ha a che vedere con la regola di attribuzione di compiti operativi a soggetti diversi da quelli della Pubblica amministrazione così da realizzare una cessione di sovranità; quella circolare che costituisce una forma, ancora inedita in Italia, di condivisione di sovranità. Se la sussidiarietà in senso verticale dice del rifiuto del centralismo e del dirigismo e parla dunque a favore del decentramento amministrativo, la sussidiarietà in senso orizzontale attiene piuttosto al criterio con cui si ripartisce la titolarità delle funzioni pubbliche tra enti pubblici e corpi intermedi della società civile,  suggerendo, in tal modo, che la sfera del pubblico non  coincide, pari pari, con la sfera dello Stato e degli altri enti pubblici. Che dire della versione circolare della sussidiarietà? Si tratta di un principio la cui prima elaborazione risale alla fine del XIII secolo e che deve molto al pensiero di Bonaventura da Bagnoregio e di altri importanti autori della Scuola Francescana. Come ho mostrato in “Tracce di economia civile nel pensiero francescano della prima modernità” (a cura di P. Delcorno, Politiche di misericordia tra teoria e prassi, Bologna, Il Mulino, 2018), si è soliti attribuire il merito della ‘scoperta’ della sussidiarietà al celebre giurista Ugo Grozio (1583-1645) e al filosofo Johannes Althusius (1557-1663) che nel 1615 ne coniarono il termine. Ciò è bensì vero, ma il concetto, e soprattutto la pratica, della sussidiarietà risalgono a oltre tre secoli prima, quando in Toscana e Umbria sorsero le famose confraternite (si pensi alle Misericordie, tuttora in attività) e le corporazioni di arti e mestieri. Ebbene, la mia proposta è di applicare all’organizzazione d’impresa il principio di sussidiarietà circolare, ovviamente opportunamente interpretato. Sono dell’avviso che si possa, per tale via, giungere a risolvere, in modo concreto, il problema di come far interagire fra loro le cinque classi di stakeholder dell’impresa. Solamente entro l’orizzonte della sussidiarietà circolare è possibile realizzare il democratic stakeholding, il cui ancoraggio etico è l’etica delle virtù. Mi rendo certamente conto che non si tratti di un’operazione semplice, ma certo non impossibile.
L’articolo integrale è pubblicato sul numero di Novembre-Dicembre 2022 di Sviluppo&Organizzazione. Per informazioni sull’acquisto di copie e abbonamenti scrivi a daniela.bobbiese@este.it (tel. 02.91434400)
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