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venerdì, 7 Novembre, 2025

Formazione

Its, senza soldi niente buoni tecnici

Mentre aspettiamo ancora il Piano Industriale nazionale al 2030, promesso con un ‘libro bianco’ dal Ministero delle Imprese e del Made in Italy e atteso per febbraio 2025, la nostra economia industriale è tornata nuovamente in flessione. Intanto la Cina ha di recente presentato il piano quinquennale della economia industriale 2026-30. In sintesi, ciò che […]
6 Novembre 2025
Di: Valerio Ricciardelli
6 Novembre 2025
ITS_fondi

Mentre aspettiamo ancora il Piano Industriale nazionale al 2030, promesso con un ‘libro bianco’ dal Ministero delle Imprese e del Made in Italy e atteso per febbraio 2025, la nostra economia industriale è tornata nuovamente in flessione. Intanto la Cina ha di recente presentato il piano quinquennale della economia industriale 2026-30. In sintesi, ciò che avrebbe dovuto fare anche l’Unione europea, come ben indicato nel Rapporto Draghi, per cercare di recuperare i suoi fattori di competitività anche nei confronti del gigante asiatico.

L’iniziativa cinese è molto importante, ma anche impressionante: deve farci riflettere e riportarci con preoccupazione alle cose di casa nostra e alle riforme scolastiche domestiche che da noi dovrebbero occuparsi, se non di ‘scienziati strategici, leader tecnologici e ingegneri di alto livello’, almeno di tecnici di buon livello che servirebbero con urgenza alla nostra economia, che necessiterebbe di una coraggiosa rivoluzione dell’istruzione tecnica e professionale per rimanere la seconda manifattura in Europa.

Le nostre riforme dell’istruzione tecnica e professionale – di cui scriviamo da tempo – sono la ridotta evidenza quantitativa e qualitativa di alcuni interventi nel nostro ordinamento scolastico che, per le necessità di cui avrebbe bisogno il Paese, richiederebbero ben altri ordini di grandezza quantitativi e qualitativi.

Non possiamo allora accontentarci della riforma 4+2, quella che è chiamata ‘filiera dell’istruzione tecnica e professionale’ e che riguarda una stima di 5.400 iscritti nell’anno scolastico 2025-26, proiettata a 10mila nel 2028, rispetto ai 250mila che si iscriveranno invece ai percorsi dell’istruzione tecnica e professionale quinquennale. Ho già rimarcato che l’interesse verso questa novità scolastica sembrerebbe maggiormente rivolto alla possibilità di acquisizione del diploma in quattro anni anziché in cinque, esito anche di una sottintesa, ma evidente, poca ‘voglia di studiare’ che, come si evince dai dati Istat sulle alte percentuali di non raggiungimento degli obiettivi di apprendimento minimi, affligge non pochi nostri studenti. Tra l’altro, si è fatto finta di niente quando, nell’ultimo rapporto del Censis, la scuola italiana è stata definita la fabbrica degli ignoranti.

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L’incolmabile gap con l’istruzione universitaria

Stavolta vorremmo però capire la sostenibilità degli Istituti tecnologici superiori (Its), di cui ne abbiamo grande necessità, dopo l’esaurimento dei fondi del Piano nazionale di ripresa e resilienza (Pnrr), osservando anche in tal caso che si tratta di un percorso ordinamentale di istruzione terziaria professionale che riguarda, al più, 20mila iscritti all’anno, ma che meriterebbe tante altre osservazioni.

Giova ricordare, che il numero totale dei diplomati annuali dei percorsi di istruzione secondaria superiore sono poco più di 500mila e di questi, circa 340mila, sarebbero gli immatricolati annui all’università (66%), mentre solo il 4% sono gli iscritti agli Its (il dato vale anche per il futuro). Già questa differenza percentuale enorme fa comprendere come la pari dignità concettuale e di finalità tra le due scelte opzionali dopo il diploma è assolutamente impossibile da realizzare.

C’è un altro dato che dovrebbe essere attenzionato, che evidenzia una anomala differente e alternativa opzione alle due scelte post diploma (università o Its). È il numero di giovani diplomati e laureati che abbandonano il Paese in cerca di opportunità migliori. Parliamo di alcune decine di migliaia di persone all’anno nella fascia di età 18-34 anni e il numero è in continua crescita.

Questa cifra è già in competizione con il numero degli iscritti all’Its e non è indice di un fatto episodico temporale, ma l’esito di un fenomeno sempre più ampio, in continuo e significativo aumento, che evidenzia come una parte consistente dei nostri giovani – sicuramente quelli dotati di un maggior potenziale – non ha più fiducia nel nostro mercato del lavoro e nelle prospettive future che offre (in merito a questo aspetto è bene ricordare la bassa percentuale di contratti a tempo indeterminato, 34%, quali esiti occupazionali alla fine dei percorsi degli Its).

Pochi diplomati agli Its e troppo precari

Mentre la Cina sta creando un sistema di attrazione di talenti globali, proprio attraverso il nuovo piano di sviluppo industriale, da noi mancano al tavolo delle riforme i soggetti che si devono occupare dell’employability e quindi del futuro delle prospettive dei nostri giovani.

Vorremmo però anche chiederci perché non si è messo finora mano alla riforma dei percorsi quinquennali, quelli che interessano il 98% degli iscritti all’istruzione tecnica e professionale. Si tratta dei percorsi ordinamentali che possono formare tecnici di alto livello o per lo meno di buon livello, in grado di possedere e applicare quei nuovi saperi utili per colmare i deficit prestazionali delle nostre imprese, messi in evidenza anche dal recente Rapporto del Cnel sulla produttività 2025.

I numeri della legge di Bilancio, anche nel piano triennale 2026-28, confermano che questo pezzo di ordinamento dell’istruzione terziaria professionale si attesterà poco oltre i 20mila iscritti all’anno. Ciò significa, estrapolando e proiettando i dati del monitoraggio Indire, non più di 15-16mila diplomati: tenendo conto dell’ultimo tasso di abbandono, (27,4%), vuol dire un’occupazione, dopo 12 mesi, pari all’84%; tuttavia, solo per 12-13mila il lavoro sarà coerente con il percorso di studi e appena 4-5mila studenti potranno firmare contratti a tempo indeterminato, mentre agli altri è destinata una forma contrattuale precaria.

Ci sarebbe anche da aggiungere che la verifica dello stato occupazionale, fatta solo dopo 12 mesi dalla fine dei percorsi formativi, non ci permette di misurare l’efficacia della coerenza percorso formativo-sbocco occupazionale, essendo i tempi medi di attesa per entrare nel mondo del lavoro – indipendentemente da un ulteriore percorso professionalizzante – già tra i sei e i 12 mesi. Se gli Its fossero correttamente progettati sulla base dei bisogni di alcuni segmenti della nostra economia – tra l’altro affetta dal grande mismatch tra bisogni e offerta di nuove competenze – lo sbocco occupazionale dei diplomati dovrebbe essere immediato.

Dal monitoraggio Indire emerge l’altissimo livello di precariato e quindi non si può essere d’accordo con la definizione di “successo occupazionale” espressa nella stessa reportistica. È proprio questa dimensione la causa principale dell’emigrazione delle decine di migliaia dei nostri migliori giovani, e quindi della mancanza di un sistema di attrazione verso le professioni tecniche e quindi per l’istruzione tecnica e professionale. E non è nemmeno solo colpa dell’orientamento scolastico…

L’insostenibilità degli Its dopo il Pnrr

Occorre invece ragionare sulla finanziabilità prossima degli Its dedotta dalla legge di Bilancio, dopo la fine del Pnrr. A settembre 2025, la rivista Orizzontescuola, ha pubblicato un articolo dal titolo: “Gli Its Academy crescono con 22mila iscritti: serve un finanziamento ordinario di 300 milioni o rischiamo la chiusura”. A comunicare i dati ufficiali e a lanciare l’allarme sulla fine anticipata del progetto Its è stato Guido Torrielli, Presidente di Rete ITS Italia, che ha affermato che secondo ricerche condotte da importanti enti specializzati, il fabbisogno potenziale di diplomati di istruzione superiore raggiungerebbe gli 80mila giovani nelle aree tecnologiche di competenza degli Its.

Circa l’entità del fabbisogno di finanziamento ordinario di 300 milioni è ragionevole dedurre che sia stato calcolato sulla base del costo standard per biennio e per studente, pari a 13.200 euro, previsto nel Pnrr per gli Its. Oggi, i dati della legge di Bilancio prevedono altre cifre: i finanziamenti ordinari per gli Its sono circa 98 milioni nel 2026, ridotti a 78 nei due anni successivi. Questi fondi servono per finanziare attività che prevedono 23mila iscritti nel 2026, 24 mila nel 2027 e 25 mila nel 2028: la speranza è di innalzare il tasso di occupazione dei diplomati all’88% dopo 12 mesi dalla fine del corso. Tuttavia non è stata indicata la percentuale di abbandono scolastico né la tipologia contrattuale; quest’ultima è indicativa del valore dell’employability, che dovrebbe essere il primo fattore attestante il buon successo occupazionale.

Ciò che colpisce – e che preoccupa – della sostenibilità futura degli Its, se i numeri fossero corretti e le cifre confermate, è invece l’entità ridotta dei finanziamenti ordinari previsti, che di fatto riducono per il 2026 il costo standard per biennio e per studente a soli 4mila euro e per il 2027 e 2028 a 3mila euro. Sarebbe sufficiente confrontare queste cifre con il valore medio delle tasse universitarie private – che non sono dimensionate su percorsi intensivi così lunghi come quelli degli Its – per capire la totale insostenibilità del progetto e confermare quindi il rischio di chiusura anticipato da Torrielli.

Ma c’è dell’altro. Se il presidente di Rete ITS Italia ha anche affermato che il fabbisogno potenziale di diplomati di istruzione superiore raggiungerebbe gli 80mila giovani nelle aree tecnologiche di competenza degli Its, dove andremmo a prendere questi diplomati se le previsioni numeriche del prossimo triennio sono distanti da queste cifre?

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