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mercoledì, 17 Settembre, 2025

Dietro le grandi dimissioni c’è solo un cambio di lavoro

La narrazione principale sul fenomeno delle Grandi dimissioni vuole che sia la tendenza a lasciare il lavoro perché ci si sente poco valorizzati, troppo stressati o non adeguatamente pagati. E davanti a questa situazione le persone preferiscono abbandonare il proprio posto per dedicarsi ad altre attività, non per forza lavorative. Sarebbe insomma uno stile di […]
7 Luglio 2022
Di: Martina Midolo
7 Luglio 2022
Job interview
La narrazione principale sul fenomeno delle Grandi dimissioni vuole che sia la tendenza a lasciare il lavoro perché ci si sente poco valorizzati, troppo stressati o non adeguatamente pagati. E davanti a questa situazione le persone preferiscono abbandonare il proprio posto per dedicarsi ad altre attività, non per forza lavorative. Sarebbe insomma uno stile di vita in linea con la Yolo economy, il modello per il quale, vivendo una volta sola (questa la traduzione letterale dell’acronimo Yolo, you only live once), serve dare maggiore attenzione alla vita privata anche sacrificando il lavoro.  Nato negli Usa come Great resignation, il trend delle dimissioni è poi arrivato anche in Italia. Ma davvero le persone di licenziano per dedicarsi alle proprie passioni extra ufficio? Una recente ricerca dal titolo Grande dimissione: fuga dal lavoro o narrazione emotiva condotta da Adapt, l’Associazione per gli studi internazionali e comparati sul diritto del lavoro e sulle relazioni industriali, e firmata dal Ministro per la Pubblica Amministrazione Renato Brunetta e da Michele Tiraboschi, Coordinatore Scientifico della Scuola di alta formazione in relazioni industriali e di lavoro di Adapt, ha smontato il mito, sostenendo che il fenomeno è ben più complesso e, al di là dello stress post-pandemico, la maggioranza delle dimissioni avviene per quella che gli esperti chiamano “transizione job to job”. In sintesi, si abbandona un posto di lavoro per occuparne un altro, magari meglio pagato.  Questa tesi, proposta dallo studio di Adapt, è avvalorata, per esempio, dal Rapporto annuale sulle comunicazioni obbligatorie 2022, che descrive le dinamiche del mercato del lavoro dipendente e parasubordinato nel triennio 2019-21. Dai dati emerge che i contratti di lavoro cessati per dimissioni volontarie sono stati 1.839.747 nel 2019, 1.566.454 nel 2020 e 2.045.200 nel 2021. È chiaro che lo scorso anno si è registrata una crescita evidente (11,6%), ma è pur vero che nel 2020 si è assistito a un’inversione di tendenza, dovuta certamente al ‘congelamento’ del mercato del lavoro a causa di una limitata domanda sia per il blocco dei licenziamenti che ha interessato la quasi totalità del 2020. 

Ci si dimette per lavorare in un’altra azienda 

La crescita del numero di dimissioni nel 2021 è stata quindi un ritorno all’andamento già noto e secondo gli esperti non è stato evidenziato alcun trend particolare, tanto che sarebbe più corretto considerare il fenomeno delle ‘dimissioni rimandate’. Inoltre più che di fronte a un nuovo atteggiamento verso il lavoro con la preferenza per la sfera personale, la ricerca sottolinea che dietro le grandi dimissioni spesso si cela il cambio di azienda. La conferma arriva dalla Relazione 2021 della Banca d’Italia, da cui emerge che i lavoratori hanno presentato le dimissioni quando certi della prospettiva di un nuovo impiego.  Va sempre in questa direzione l’andamento positivo del tasso di rioccupazione post-dimissioni volontarie. La ricerca Adapt ha confrontato infatti i dati di novembre 2019 con lo stesso mese del 2021, e ha evidenziato come il tasso di rioccupazione a una settimana dalle dimissioni sia passato dal 36% al 40%. Allungando l’orizzonte temporale, si è scoperto che a un mese dall’abbandono dal precedente lavoro, la quota, che nel 2019 era del 48%, nel 2021 è salita al 52%. E il trend cresce se si sposta ancor di più il tempo di analisi: a settembre 2019, chi si era dimesso aveva trovato un impiego dopo tre mesi nel 56% dei casi, mentre due anni dopo la percentuale è salita al 60%. Infine, secondo l’ultima rilevazione del tasso di occupazione (aprile 2022) dell’Istat, siamo di fronte al miglior risultato dal 1977, anno in cui è iniziata l’analisi (59,9% di occupati). 

Potenziare le competenze dei lavoratori 

Che cosa rimane quindi del mito della Great resignation per cui ci si dimette per dedicarsi ad altre attività che non siano il lavoro? Secondo l’analisi dell’Adapt, poco o nulla. È innegabile che dopo la pandemia tanti lavoratori abbiano messo in discussione i propri equilibri, alla luce di una nuova conciliazione vita-lavoro, resa possibile anche da modelli di lavoro che fino a qualche anno fa erano appannaggio solo delle grandi aziende (uno su tutti: il lavoro agile). Ma i dati precisano che le persone continuano a lavorare.  Tuttavia, l’analisi non intende sorvolare sulle reali criticità del mercato del lavoro italiano: in particolare sono state rilevate strutturali difficoltà di matching tra domanda e offerta. In sintesi, c’è un crescente disallineamento tra le aspettative dei lavoratori e quelle dei datori di lavoro, non soltanto in relazione alle competenze possedute e ricercate. La domanda di lavoro in Italia è spesso concentrata su settori a basso valore aggiunto e con scarsa propensione all’innovazione, cui si aggiunge un’altrettanta scarsa integrazione tra mondo della formazione e mondo del lavoro.  Per rispondere efficacemente a questa situazione, secondo Brunetta e Tiraboschi, occorre immaginare un mercato del lavoro nuovo, più equo e nel quale la concorrenza basata su competenze e professionalità possa essere matura. E che possa permettere un incontro tra domanda e offerta fondato su regole chiare e, soprattutto, rispettate da tutti i soggetti coinvolti. 
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