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giovedì, 18 Settembre, 2025

Si può (ancora) amare il lavoro?

Un articolo uscito a ottobre 2021 su L’Economia, settimanale del Corriere della Sera, riportava che in Italia si stavano licenziando volontariamente circa 500mila lavoratori ogni tre mesi. Negli Stati Uniti il trend è stato identificato come “Great resignation”. Questo fenomeno di abbandono quasi di massa è complesso e certamente trova spiegazioni in diversi fattori, primo […]
1 Giugno 2022
Di: Alberto Piccolo
1 Giugno 2022
Lavoro_affezione
Un articolo uscito a ottobre 2021 su L’Economia, settimanale del Corriere della Sera, riportava che in Italia si stavano licenziando volontariamente circa 500mila lavoratori ogni tre mesi. Negli Stati Uniti il trend è stato identificato come “Great resignation”. Questo fenomeno di abbandono quasi di massa è complesso e certamente trova spiegazioni in diversi fattori, primo fra tutti una ricollocazione nei settori in espansione. Per comprenderlo, però, è necessario anche tenere conto che le aziende, in generale, manifestano difficoltà nel coprire con nuovi addetti le posizioni vacanti. Anche in questo caso è determinante l’oramai strutturale carenza di competenze specialistiche e, a quanto risulta, anche di profili manageriali. È evidente che siamo di fronte a un profondo ripensamento, da parte di molti, del rapporto con il lavoro, con il suo significato, sul posto e sul tempo che deve occupare nella vita. Possiamo allora ipotizzare una vera e propria ‘disaffezione’ nei suoi confronti?

Lo stretto legame tra affezione al lavoro, attitudine e motivazione

Certamente alcuni (molti?) esempi paradigmatici di successo nel mondo del lavoro – inteso in senso molto lato – possono facilmente indurre a pensare il venir meno di una correlazione diretta tra impegno – competenza e carriera, specialmente in termini di guadagni. Il miraggio, tutt’altro che illusorio, della rapida ascesa alla ricchezza, ritagliandosi un ruolo sul palcoscenico della pubblica notorietà (blogger, influencer, rapper, ‘grandefratellisti’, ecc.), può per molti rappresentare una scorciatoia che vale quanto meno tentare. Ma accanto al diffondersi, specialmente fra i più giovani, di un atteggiamento che guarda con interesse a un tal genere di possibilità di sviluppo di carriera (che almeno per ora si può ritenere decisamente minoritario), è percepibile un’evidente disaffezione almeno nei confronti di un certo modo di intendere e di esercitare il proprio mestiere. Ma per affrontare questi argomenti dobbiamo presupporre che ci sia stata – e magari ci sia tuttora – una possibilità di affezione. Cosa intendiamo innanzitutto con questo termine? “La vita dell’uomo consiste nell’affetto che principalmente lo sostiene e nel quale trova la sua più grande soddisfazione”. La frase di San Tommaso d’Aquino attribuisce alla parola un significato fondamentale per la vita delle persone e lascia intendere che è una pluralità di affetti a sostenere l’essere umano, che lo fa essere quello che è, in quanto in essa trova la sua soddisfazione, il suo compimento, ciò che dà senso alla sua vita. “Affezione” – dal latino “affectus” – da un punto di vista etimologico significa “impressione che genera un attaccamento”. Ciò richiama l’idea che ciascuno di noi porta impresso qualcosa, risalente a esperienze pregresse cui siamo emotivamente legati, che ci attira, nel senso di una spinta a reiterare quelle stesse attività. Credo che questo possa essere considerato come l’origine di quello che, poi, si va definendo come “attitudine”: attrazione verso l’esercizio di una certa capacità e soddisfazione nel constatarne l’effetto soggettivo (piacere) e oggettivo (risultato) che genera. La possibilità di mettere in pratica con successo tale abilità è ciò che poi comunemente definiamo come “motivazione intrinseca”.

Esercizio del lavoro, contesto e relazioni come motivi d’affezione

Aiutati da questa premessa, possiamo provare a ipotizzare una serie di possibili motivi d’affezione. Innanzitutto, l’esercizio in sé di un certo mestiere, il suo contenuto, il suo oggetto, le conoscenze, le competenze che lo riguardano e i gesti che richiede. Si tratta di un attaccamento ai compiti richiesti dal proprio lavoro: la scoperta dell’azione-oggetto in grado di generare soddisfazione. Non solo, la capacità di interagire positivamente con il sistema che ha quell’oggetto come centro gravitazionale genera un’attitudine che, se trova la possibilità di esprimersi, diviene quello che chiamiamo “talento”. Un’altra possibile fonte di legame affettivo al lavoro può essere quella generata dal contesto: le relazioni positive, l’interazione con gli altri, come pure il riconoscimento del proprio impegno e dei risultati raggiunti, la crescita professionale. Sono tutti elementi che concorrono a generare un benessere personale e, quindi, un’affezione all’ambiente e al lavoro che il soggetto svolge all’interno di esso. È, per esempio, il caso di alcune aziende, come Olivetti, Ferrero, Ferrari, storicamente note per la capacità di suscitare questo tipo di affezione nei propri dipendenti. Possiamo fare rientrare in questa dimensione anche il legame che si può creare con un lavoro, magari di per sé non particolarmente confacente alle attitudini del soggetto, ma che gli consente di raggiungere altri obiettivi fondamentali nella sfera della vita personale-familiare. In questo caso, è chiaro che ci spostiamo più nell’ambito della cosiddetta motivazione estrinseca; ciò non toglie che si sviluppi tra il lavoratore e la sua occupazione un legame di tipo affettivo, quantomeno una riconoscenza gratitudine verso quella mansione.
L’articolo integrale è pubblicato sul numero di Aprile-Maggio 2022 di Persone&Conoscenze. Per informazioni sull’acquisto di copie e abbonamenti scrivi a daniela.bobbiese@este.it (tel. 02.91434400)
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