Basta lo schwa per valorizzare le differenze di genere?
L’inclusività passa anche dal linguaggio. Prendiamo la declinazione delle professioni: un discorso che, favorevoli o contrari, sta facendo nascere riflessioni e confronti parecchio stimolanti non può che mostrare come il cambiamento della società passi dalle parole scelte per parlare. Perché non sono solo le professioni a voler utilizzare nomi inclusivi: tutto il linguaggio sembra prepararsi […]

L’inclusività passa anche dal linguaggio. Prendiamo la declinazione delle professioni: un discorso che, favorevoli o contrari, sta facendo nascere riflessioni e confronti parecchio stimolanti non può che mostrare come il cambiamento della società passi dalle parole scelte per parlare. Perché non sono solo le professioni a voler utilizzare nomi inclusivi: tutto il linguaggio sembra prepararsi ad ampliare la propria inclusività, e se nella lingua italiana il neutro non esiste, a farsi spazio è un simbolo fonetico.
Si chiama “Schwa”, è diffuso foneticamente in molte lingue europee ed extraeuropee, si scrive “ə” e si legge come una vocale intermedia e poco pronunciata. Utilizzarlo alla fine delle parole, dunque, permetterebbe di includere il maschile e il femminile senza distinzione, al singolare e al plurale cumulativo.
Pur circolando da tempo negli ambienti più femministi e inclusivi, lo schwa sta facendo notizia solo di recente a livello più ampio grazie a una decisione del Comune di Castelfranco Emilia, nel Modenese: la scelta dell’amministrazione, infatti, è quella di utilizzare d’ora in poi per le proprie comunicazioni ufficiali il simbolo “ə” al posto dei plurali maschili universali. La motivazione è la volontà di valorizzare e rispettare le differenze della comunità, partendo da un linguaggio più inclusivo che rispetti la pluralità della società.
Donne manager, sono ancora troppo poche
Un discorso, questo, ritenuto futile da alcuni – convinti siano altre le questioni importanti su cui puntare i riflettori per arrivare a una vera parità di genere – ma che per altri significa un tassello nella lunga strada dell’inclusione, da lastricare esattamente con tutte queste scelte rappresentative. La società, infatti, sta cambiando, come si può notare anche nel mondo del lavoro, e con essa anche il linguaggio. Pensiamo solo alle donne manager alla dirigenza delle aziende italiane. Il dato resta basso rispetto alle quote mondiali (globalmente le donne in posizioni dirigenziali sono passate dal 20% del 2011 al 29% del 2020 secondo i dati diffusi dalla ricerca Women in business 2020 di Grant Thornton), ma secondo l’ultimo Rapporto donne curato da Manageritalia (Federazione nazionale dirigenti, quadri ed executive professional del Commercio, Trasporti, Turismo, Servizi e Terziario avanzato) il loro numero continua a crescere. Se nel 2018 in Italia le donne occupavano posizioni manageriali per il 17,6% del totale (nell’ambito della dirigenza privata), nel 2019 il numero si è alzato, arrivando al 18,3%. Il margine non è altissimo, ma cambia quando lo rapportiamo al calo dei dirigenti dal 2008 a oggi: i dirigenti privati sono infatti diminuiti del 3% dall’anno della crisi, ma se gli uomini sono calati del 10%, le donne sono aumentate del 49%. Tutto varia anche in relazione alle regioni. Le zone con il maggior numero di donne manager risultano il Molise (il 30% del totale), la Sicilia (25,5%), il Lazio (24,1%), la Basilicata e la Lombardia (con il 20% entrambe). Restano indietro invece la Calabria (14,6%), l’Abruzzo e il Trentino Alto Adige (con poco più del 9% di donne dirigenti). L’altro dato riguarda invece i quadri privati, che fanno ben sperare. In questo caso, le donne alla dirigenza arrivano al 30,4% del totale, con Lazio, Sardegna e Lombardia in testa alla classifica come regioni “rosa” (tutte sopra il 30%).Regole comunicative più rispettose per stimolare la parità
Se l’Italia resta ancora un fanalino di coda, quindi, il linguaggio potrebbe diventare un propulsore di parità, anche se a utilizzare ufficialmente lo schwa sono solo, per ora, il Comune di Castelfranco Emilia e la casa editrice Effequ, che l’ha inserito nelle proprie norme editoriali. Esistono tuttavia altri esempi, anche se indipendenti da questa iniziativa: il programma Human equity project di Jaggaer, provider indipendente di soluzioni per lo Spend management, per esempio, che introduce in azienda regole comunicative più rispettose delle diversità, sia di genere sia di etnia, sostituendo le espressioni problematiche e superate e proponendone di nuove e più inclusive. La lingua, infatti, non ha una valenza granitica e assoluta e soprattutto non ha un mero valore nominale. Usare un determinato linguaggio e cominciare a puntare su parole e forme più inclusive potrebbe dunque plasmare il pensiero, rendendo più importanti e accettati ruoli e personalità precedentemente in ombra o ai margini. Esattamente come nel caso delle donne: fino a poco tempo fa potevano chiamarsi solo “direttori” o “avvocati” (e non “direttrici” o “avvocate”) e recarsi solo nei bagni maschili (perché ai piani alti le posizioni dirigenziali femminili non erano nemmeno contemplate); oggi possono contare addirittura in desinenze neutre. Almeno in alcuni ambienti.Al tema della diversity è dedicata la Storia di copertina del numero di Aprile 2021 della rivista Persone&Conoscenze.
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Categoria: Risorse Umane, Gestione delle diversità

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