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giovedì, 18 Settembre, 2025

Gestire le diversità come competenza dei nuovi leader

Qual è lo stile manageriale più adatto a una società danese? Come si dovrebbero dare i feedback a un collaboratore americano? Qual è il processo decisionale tipico di un’azienda italiana? Nel mondo globalizzato, in cui internet e la tecnologia hanno azzerato le distanze e in cui (quasi) tutti ci troviamo a confrontarci quotidianamente con un […]
21 Luglio 2021
Di: Elisa Marasca
21 Luglio 2021
Qual è lo stile manageriale più adatto a una società danese? Come si dovrebbero dare i feedback a un collaboratore americano? Qual è il processo decisionale tipico di un’azienda italiana? Nel mondo globalizzato, in cui internet e la tecnologia hanno azzerato le distanze e in cui (quasi) tutti ci troviamo a confrontarci quotidianamente con un mercato lavorativo internazionale, dobbiamo fare sempre più spesso i conti con questo tipo di domande. Una delle sfide attuali, quindi, sia per il dirigente di una multinazionale con sedi in diversi continenti sia per il piccolo professionista che lavora online con clienti sparsi per il mondo, è quella di riconoscere e sapersi confrontare con le diverse culture delle persone con cui ci si trova a interagire. In un libro che tocca gli elementi chiave di differenziazione, La mappa delle culture (Roi Edizioni, 2021), Erin Meyer, professoressa statunitense specializzata nello studio delle differenze culturali e della loro conciliazione per la cooperazione in ambito lavorativo, risponde a questi quesiti. E traccia una mappa dettagliata delle culture dei diversi Paesi, fornendo consigli su come adottare le tecniche più efficaci nella comunicazione e nelle interazioni all’interno di ambienti multiculturali. Lo fa indicando otto aspetti fondamentali nella vita e nel lavoro: comunicazione, valutazione, persuasione, leadership, decisioni, fiducia, disaccordo, programmazione.

Essere aperti alle differenze individuali non basta

Il testo parte dal presupposto che è molto comune lavorare per decenni tra culture diverse e viaggiare frequentemente per lavoro, pur rimanendo inconsapevoli e disinformati su come la cultura ci influenzi. “Milioni di persone lavorano in contesti globali pur valutando tutto dalle proprie prospettive culturali e presumendo che tutte le differenze, le controversie e le incomprensioni siano radicate nella personalità”, si legge nel libro. Questo atteggiamento però non è dovuto a pigrizia: secondo Meyer tante persone benintenzionate non si educano abbastanza alle diversità culturali perché credono che concentrarsi sulle differenze individuali sia sufficiente. L’autrice inserisce molti esempi di vita aziendale. Per esempio: gli americani accompagnano ogni commento negativo con tre elogi; i nordeuropei preferiscono la sincerità (“La tua presentazione è tutta da rifare”); i giapponesi e i cinesi sono attentissimi alla gerarchia, gli scandinavi per niente. Riporta anche situazioni specifiche: “Immaginate di essere un dirigente israeliano che lavora per un’azienda che ha appena acquistato un impianto di produzione in Russia, e il vostro nuovo incarico richiede di gestire un gruppo di dipendenti russi. All’inizio le cose vanno bene, ma poi vi accorgete di avere molte difficoltà nello stile manageriale. A questo punto è molto importante sapere che le due culture hanno concezioni molto diverse quando si tratta di leadership, con quella russa più incline a un approccio gerarchico, mentre quella israeliana è più orientata all’approccio egualitario. Ecco la base da cui partire per costruire un nuovo approccio manageriale”.

Gestire le differenze della quotidianità

Meyer dedica poi un intero capitolo al tempo e alla concezione del ritardo: arrivare in ritardo a un appuntamento presuppone di avvisare in anticipo in Paesi come la Germania, gli Stati Uniti o il Regno Unito; se sono meno di 10 minuti di ritardo in Francia o in Italia non ci sarebbe neppure bisogno di avvisare; così come in Medio Oriente, in Africa, in India o in Sudamerica indipendentemente dal numero di minuti di ritardo. Nello stesso capitolo, un paragrafo tratta l’annoso tema (almeno in Italia) delle file, e paragona che cosa significhi fare una coda a Stoccolma oppure in India: un’esperienza vissuta in maniera completamente diversa. Secondo l’autrice l’atteggiamento in coda è una metafora della programmazione di una riunione. Nei Paesi del Nord Europa, per esempio, la riunione deve apparire come una ‘fila’ e quindi è stabilito in anticipo un ordine del giorno con i temi e chi deve parlare nei diversi momenti; in altre parti d’Europa, in Sudamerica, in Africa e in Medio Oriente l’ordine del giorno è una semplice guida da cui partire per sviscerare altri temi durante il meeting. La novità per il leader del XXI secolo, quindi, è la necessità di essere preparati a comprendere una gamma più ampia e ricca che in precedenza di stili di lavoro, e di essere in grado di determinare quali aspetti di un’interazione sono semplicemente il risultato della personalità e quali sono il risultato di differenze nella prospettiva culturale.
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