Più comunità di pratica e meno App
Lo sviluppo di comunità di pratica all’interno dell’azienda può fornire un formidabile incubatore e moltiplicatore delle competenze a costo zero. Ma ciò non può avvenire né in modo spontaneo né automatico: occorre che si realizzino alcune essenziali condizioni. Il teorico Étienne Wenger suggerisce di mettere a disposizione in azienda, anche durante l’orario di lavoro, “luoghi […]

Lo sviluppo di comunità di pratica all’interno dell’azienda può fornire un formidabile incubatore e moltiplicatore delle competenze a costo zero. Ma ciò non può avvenire né in modo spontaneo né automatico: occorre che si realizzino alcune essenziali condizioni.
Il teorico Étienne Wenger suggerisce di mettere a disposizione in azienda, anche durante l’orario di lavoro, “luoghi neutrali, separati dalla pressione lavorativa quotidiana” per liberare la conoscenza, favorire la crescita di competenze distintive e, soprattutto, l’innovazione.
Ma se l’impresa è ancorata all’organizzazione gerarchica e la cultura prevalente è quella produttivistica, com’è possibile innestare la pianta della comunità di pratica? Per rispondere a questa domanda occorre riaprire il grande tema del rapporto tra strutture formali e strutture ‘emergenti’.
In ogni azienda ci sono due dimensioni che si intersecano lungo una linea sottile: una verticale e visibile, quella della struttura formale rappresentata negli organigrammi, e una orizzontale ed energetica, formata dalle relazioni.
Le imprese che affrontano il cambiamento devono impegnarsi a cogliere il punto di unione di queste dimensioni e assicurarne una ‘manutenzione’: lì passa, infatti, la linfa della creazione del valore, la possibilità di trasformare in capitale organizzativo le competenze distintive dell’impresa.
La Spirale della conoscenza formulata dal teorico Ikujiro Nonaka può trovare proprio in questo punto il suo compimento: le conoscenze tacite, una volta scambiate, combinate e rese esplicite, diventano il patrimonio intangibile che accresce il valore delle imprese basate sulla conoscenza.
Le comunità acquistano senso ed efficacia solo nelle imprese che sono esposte alla turbolenza del cambiamento, in cui il contributo dei knowledge worker è determinante, imprese imperfette perché in continuo divenire. Poste in chiave biologica, le organizzazioni non possono basarsi sulla sola struttura formale, ma devono ricercare le condizioni per valorizzare la dimensione orizzontale e facilitare la liberazione delle potenzialità delle persone.
È questo il contesto in cui le comunità di pratica funzionano e portano valore. Lo stesso Wenger ne esclude ogni deriva anarcoide, evidenziandone invece il carattere di ‘autonomia organizzata’ (o ‘assistita’): esse sono basate sulla libertà di iniziativa e di scambio da parte dei componenti, ma richiedono un necessario supporto e l’apertura di un canale di scambio che mantenga connesse le reti informali della conoscenza con le unità di business che governano i programmi.
L’azienda resta pur sempre un organismo gerarchico, ma la cultura organizzativa del management può disancorarsi da questo stile e assumere invece la capacità di generare empowerment e motivazione.
Proprio perché sono basate sul rapporto tra pari, sulla libera espressione delle idee, sul valore della diversità, sul contributo dei singoli indipendentemente dal loro peso gerarchico, le comunità di pratica offrono il terreno ideale per moltiplicare gli effetti della nuova cultura organizzativa.
Esse stesse agiscono per facilitare e potenziare la condivisione della conoscenza e come catalizzatori dell’evoluzione. Il cambiamento della cultura organizzativa non conosce scorciatoie: non ci sono corsi di formazione né un’App per cambiare le relazioni tra capi e collaboratori con un clic. Abbiamo un efficace incubatore, bisogna avere la volontà e la capacità di accenderlo.
Categoria: Organizzazione

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