Attivare la creatività in azienda
L’interesse per l’area della creatività è plausibile nasca dalla rilevanza che questo tipo di output può assumere nel management e nella cultura organizzativa d’impresa. Il termine “creatività” comincia a circolare negli ambienti aziendali (e non solo) negli Stati Uniti degli Anni 50 del secolo scorso. Erano gli anni della Guerra fredda e gli Usa erano appena rimasti scioccati dalla rapidità con cui l’Unione Sovietica aveva rimontato il gap nucleare facendo esplodere nel 1949 la sua prima atomica: choc aggravatosi 12 anni dopo con la realizzazione sovietica del primo volo orbitale con astronauta a bordo (Jurij Gagarin). Così, negli Anni 50 e 60, gli Usa si chiesero come rimontare il gap e riprendersi il primato dello sviluppo tecnologico, in particolare nella superiorità militare e astronautica, ma più in generale nelle capacità produttive e nella maggiore ‘intelligenza’ degli americani.
In questo sforzo accadde che i pedagogisti prima e gli psicologi americani poi cominciarono a immaginare che la creatività non fosse una qualità rara e misteriosa riservata agli artisti, secondo il mito ottocentesco dell’artista come personaggio anomalo, geniale e sregolato. Non che il suo alone di anomalia eccezionale venga meno, tanto che ancora oggi il linguaggio quotidiano traduce creativo con sinonimi come strano, diverso, particolare, eccezionale… cose di cui in sostanza non si può avere una comprensione razionale o logica. Uno stereotipo che ritroviamo anche in personalità non banali di quegli anni.
Ray Bradbury, famoso autore di fantascienza raccomandava: “Non pensare. Il pensiero è nemico della creatività. È autocosciente e tutto ciò che è autocosciente è schifoso. Non puoi provare a fare le cose. Devi semplicemente farle”. Questo a indicare la convinzione che lo spazio della creatività è sottratto sia al pensare riflessivo sia alla simulazione mentale delle azioni e vive solo nella spinta all’agire, riducendo la mediazione razionalizzante (pianificante, calcolante). Albert Einstein diceva che: “La creatività non è altro che un’intelligenza che si diverte. Qui non c’è ostilità tra intelligenza e creatività, anzi la creatività è un modo di essere dell’intelligenza: ma quando ‘non lavora’ non è focalizzata a risolvere problemi o fare calcoli, ma ‘si diverte’” (letteralmente, quindi, prende una direzione diversa dalla sua solita). José Saramago (Nobel per la letteratura nel 1998) lo dirà in altro modo: “Lasciati guidare dal bambino che sei stato” (quando vuoi essere creativo), espressione di un altro filone di pensiero (e anche di ricerca) teso a evidenziare come i bambini siano più creativi degli adulti che poi diventano (sempre che ci intendiamo alla fine su cosa dobbiamo intendere per ‘creativo’).
La misura della creatività
A ogni modo, tra gli Anni 50 e 60 del secolo scorso, nacque negli Usa la formidabile idea che la creatività potesse essere una risorsa di intelligenza sociale utile per la produttività e l’innovazione, un asset capace di far vincere la gara con il mondo comunista. Il punto era che, per rendere disponibile e gestibile questa risorsa eccezionale, bisognava studiarla scientificamente, sottrarla al suo alone affascinante, misterioso e scarsamente o per nulla gestibile. La sfida era legata alla possibilità di comprendere questa capacità umana non come talento singolare allocato in individui particolari ed eccezionali, ma come risorsa umana generale, educabile, socialmente condivisibile: solo così, infatti, sarebbe potuta diventare una risorsa culturale e uno strumento di booster produttivo-organizzativo.
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