Skip to main content

lunedì, 3 Novembre, 2025

Riforma

Scuola, i limiti del modello 4+2

Nel bel mezzo di tanti cambiamenti, anche imprevisti e imprevedibili, dovremmo chiederci se le riforme scolastiche che incidono maggiormente sulla nostra economia e sul nostro welfare – a partire dalla ‘4+2’ (la possibilità di diplomarsi in quattro anni) e dall’istruzione terziaria degli Istituti tecnologici superiori (ITS) – siano le scelte più efficaci per affrontare il […]
28 Ottobre 2025
Di: Valerio Ricciardelli
28 Ottobre 2025
Scuola_Valditara

Nel bel mezzo di tanti cambiamenti, anche imprevisti e imprevedibili, dovremmo chiederci se le riforme scolastiche che incidono maggiormente sulla nostra economia e sul nostro welfare – a partire dalla ‘4+2’ (la possibilità di diplomarsi in quattro anni) e dall’istruzione terziaria degli Istituti tecnologici superiori (ITS) – siano le scelte più efficaci per affrontare il grave disallineamento tra il bisogno di cultura industriale, necessaria per affrontare le sfide della competitività in un contesto di buona employability e l’offerta di ‘saperi’ proposta dalle istituzioni scolastiche.

Se gli enti istituzionali più coinvolti, compresi molti media, nelle loro dichiarazioni pubbliche esprimono un giudizio abbastanza positivo, forse più condizionati dall’ottimismo della speranza anziché dal realismo della ragione, non mancano le perplessità anche provenienti dal mondo della scuola, che andrebbero ascoltate e approfondite per allargare gli orizzonti di un dibattito che finora è sempre mancato.

Il mancato ascolto dietro la riforma

Iniziamo dalla nuova filiera dell’istruzione tecnica-professionale, denominata ‘4+2’, che è stata presentata come il punto di partenza di tutte le riforme. Trae origine dalla preoccupante mancanza nel mercato del lavoro di competenze e di professioni tecniche, forse però quelle più riconducibili all’addestramento professionale. Pur essendo già pubblicizzata come una soluzione quasi miracolistica del problema, i fatti meriterebbero ben altri approfondimenti.

Quando si riforma qualcosa, andrebbe pur sempre considerato l’intervento come un progetto di cambiamento, lieve o rivoluzionario che sia, che modifica un prima con un dopo. La costruzione di un progetto di cambiamento, come indicano le grammatiche di settore, deve sempre essere accompagnata dall’uso degli strumenti delle pianificazioni strategiche, a partire, per esempio, dalla analisi Swot: una tecnica che identifica i punti di forza (Strengths) e le debolezze (Weaknesses) e poi le opportunità (Opportunities) e le minacce (Threats).

Queste metodologie di largo utilizzo e molto importanti dovrebbero essere insegnate anche a scuola, ma sembra invece che non siano utilizzate per la riforma della scuola… L’analisi Swot, costruita raccogliendo i pareri più autorevoli e argomentati degli esperti, anche diversi tra loro, e ascoltando soprattutto gli operatori scolastici, consentirebbe di spersonalizzare le valutazioni soggettive che spesso inquinano i giudizi e le conclusioni.

Una rappresentazione ordinata e ben approfondita di un progetto di cambiamento, nel caso in questione della riforma scolastica dell’istruzione tecnica e professionale, metterebbe in luce e soprattutto in ordine tutte quelle valutazioni di positività e criticità che dovrebbero essere analizzate, conferendo loro una legittimazione di maggior oggettività per poi costruire i necessari meccanismi di comunicazione, di attuazione, di monitoraggio e di misure correttive della riforma.

Così non è successo: è mancato un dibattito qualificato. Addirittura, si osserva che saremmo in presenza di una riforma senza ancora i contenuti e quindi vuota. Ne ha scritto, recentemente, anche il Cnel nel suo primo rapporto sulla produttività 2025. Si osserva che non è entrata in funzione nemmeno la struttura tecnica prevista dalla stessa Legge 121/2024, individuata come strumento necessario per dare corpo e sostanza alla riforma. Insomma, in gergo ecclesiastico conciliare, si direbbe: “Tantum aurora est”. Nel frattempo si dovrebbero guardare i numeri, intendendo gli aderenti che sono stati attratti dalla riforma, che sono pur sempre un segnale interpretativo della percezione degli attori o dei fruitori di queste novità, e si dovrebbe anche guardare come si sono modificati gli scenari che avevano dato origine alla riforma.

Una scelta dettata dal percorso più breve

Non dimentichiamoci che l’obiettivo principale dell’istruzione tecnica e professionale è il sostegno della nostra economia industriale e il mantenimento dei suoi fattori competitivi in uno scenario completamente nuovo, ad alta variabilità e imprevedibilità, e conseguentemente il mantenimento del nostro welfare anche attraverso una buona employability. Tutto ciò richiede necessariamente la creazione di nuovi saperi e nuove competenze con una visione proattiva e anticipatrice, che necessita più che un potenziamento, una rivoluzione copernicana dell’istruzione tecnica, che deve però essere attrattiva per gli studenti e che quindi generi maggiore attrattività verso le scuole tecniche (questo è il vero problema più difficile da affrontare, anche per le gravi inadeguatezze nelle attività di orientamento).

Da una analisi numerica emerge che gli iscritti all’istruzione secondaria superiore sono annualmente poco più di 500mila, di cui un po’ meno della metà confluiscono nei due percorsi quinquennali dell’istruzione tecnica e dell’istruzione professionale. Gli iscritti del 2025 alla nuova sperimentazione 4+2 dovrebbero essere qualche migliaio, quindi circa il 2-3% del totale degli iscritti agli istituti tecnici e professionali (con prevalenza nel Mezzogiorno), di cui meno del 50% negli indirizzi strettamente industriali, cioè quelli che interessano maggiormente la nostra economia. Poi ci sarebbe il rimanente 97% che riguarda gli iscritti ai percorsi quinquennali tradizionali che abbisognerebbero, più di tutti, di una vera urgente riforma, ancora al di là da venire…

C’è preliminarmente da chiedersi: se non ci fosse stata la sperimentazione 4+2, queste poche migliaia di nuovi studenti, dove sarebbero confluiti? Una opinione abbastanza condivisa sosterrebbe che si sarebbero iscritti prevalentemente all’istruzione professionale quinquennale. E allora, per quale ragione si sono invece iscritti alla 4+2? Sembrerebbe che ci sia eterogeneità nelle risposte e nelle motivazioni. La ragione principale che si può percepire, per ora, è la scelta di un percorso di studi per il conseguimento del diploma più breve; quindi, l’attrazione per il quadriennio contrapposto al quinquennio. D’altra parte, non essendoci nemmeno i nuovi programmi e i contenuti da mostrare, anche gli orientatori della scuola media non avevano nessun elemento oggettivo per un argomentato indirizzo di scelta.

Un’istruzione sempre più al ribasso

In questa situazione di valutazione un po’ superficiale, ci potrebbe essere un rischio importante che non andrebbe sottovalutato. La più parte dei potenziali frequentanti la 4+2 sembrerebbero appartenere alla categoria di coloro che si indirizzano preferibilmente all’istruzione professionale. Sappiamo anche che l’istruzione professionale odierna è quel pezzo di offerta scolastica che nell’immaginario collettivo, ma anche negli indirizzi dati dagli orientatori, è considerata un percorso scolastico di Serie C; se la riduciamo ancora verso il basso, solo con una diminutio quadriennale e senza nessuna contropartita, c’è il rischio di generare anche un percorso di Serie D.

Infatti, il rapporto 2024 del Censis rivela che l’80% dei diplomati quinquennali dell’istruzione professionale non raggiunge gli obiettivi minimi di apprendimento. Non c’è da sperare che ciò avvenga invece nelle materie professionali. Sappiamo anche che circa il 40% dei diplomati di scuola media non raggiunge anch’essi gli obiettivi minimi di apprendimento. Conseguentemente a questi dati sarebbe ragionevole pensare e preoccuparsi che una buona percentuale di questi ragazzi non performanti in uscita dalla terza media vadano a finire all’istruzione professionale e quelli invece un po’ meno non performanti all’istruzione tecnica (anche quest’ultima è considerata un percorso di Serie B rispetto a quello dei licei di Serie A). Ma questo è l’esito dell’orientamento scolastico attuale…

Tutto ciò per dire, che in uno scenario futuro abbastanza verosimile, gli iscritti alla 4+2 potrebbero, in una percentuale importante, non raggiungere gli obiettivi minimi di apprendimento. Il rischio è di mantenere e di peggiorare questo scostamento non performante fino al diploma. Ma è anche ragionevole supporre che in una situazione del genere, il successivo biennio +2, riguardante un percorso ITS adattato anch’esso al ribasso per i diplomati quadriennali, abbia poche speranze di essere frequentato. Una buona analisi Swot potrebbe, per lo meno, identificare da subito questa situazione come uno dei maggiori rischi della riforma e aiutare a individuare le misure correttive.

Risorse Umane

Chi lavora partecipa

La partecipazione dei lavoratori alla vita delle imprese sarà finalmente incentivata e disciplinata per legge. Il Senato ha dato il via libera definitivo al disegno di legge che recepisce la proposta…

Risposta alla cronica mancanza di tecnici

Le condizioni del mismatch che hanno dato origine alla riforma 4+2, a seguito degli mutati scenari, sono in continuo cambiamento ben oltre le fisiologiche variazioni, per cui andrebbe fatta una attualizzazione dei nuovi disallineamenti. La riforma che introduce la nuova filiera formativa tecnologico-professionale ha trovato la sua genesi nell’importante mancanza di tecnici, stimata inizialmente in circa 100mila unità all’anno, proiettata per tutto il quinquennio successivo.

Questa cifra ora andrebbe ricalcolata con criteri un po’ più sistemici, indirizzati anche dai grandi cambiamenti in corso con le incertezze generate, anziché fidarsi dalla sommatoria espressa dai soli bisogni. Gli attuali andamenti occupazionali, corretti dalle crisi congiunturali e soprattutto strutturali del settore manifatturiero e dei servizi avanzati, calcolati per settori economici e per fasce contrattuali (a partire per esempio dai pensionamenti annuali e dai settori con i maggiori richiedenti i maggiori investimenti), ci offrirebbero già un quadro più completo di informazioni.

Anche quei settori economici che non sono in crisi, ma che sono condizionati dalle grandi incertezze, stanno reagendo al mutamento degli scenari con il blocco o il calo importante delle assunzioni, che solitamente erano invece previste per far fronte a una programmazione di ricambio del personale a medio e lungo termine. Per tali ragioni, la percentuale della domanda di personale si sta spostando sempre più sulla dimensione reattiva anziché su quella proattiva: ciò comporta per i nostri giovani due scenari completamente diversi di employability che andrebbero approfonditi.

Molti mestieri tecnici ancora incardinati nei loro collocamenti organizzativi tradizionale, sono sempre più sottoposti a processi di esternalizzazione, in contesti organizzativi completamente differenti e sempre più mutabili. Si pensi, per esempio, alle attività progettuali che sono sempre appartenute al processo di innovazione e sviluppo di nuovi prodotti e saldamente incardinate nella struttura organizzativa dell’azienda. Ora, anche per queste attività è in atto una progressiva esternalizzazione verso società di consulenza di servizi, dove cambiano però le condizioni di employability.

Lavorare sull’impiegabilità dei mestieri

Se da un lato, per queste professioni, non cambiano i saperi e le competenze di cui devono disporre – se non nel loro naturale aggiornamento contenutistico – cambia invece completamente il contesto dove devono generare le loro prestazioni. Questo incide in modo significativo sulle condizioni dell’impiegabilità dei mestieri: questioni contrattuali, salariali, di crescita professionale, e di garanzia del posto di lavoro, ecc. E sono proprio queste condizioni che definiscono non solo l’attrattività e la sicurezza di una professione e del posto di lavoro, ma cambiano anche la struttura del profilo di ruolo dello stesso mestiere.

E questa è la ragione per cui continuo a sostenere che al tavolo delle riforme non è sufficiente che ci siano solo le aziende che evidenziano i saperi e le competenze di cui hanno bisogno – spesso nella modalità on demand – ma occorre che ci siano anche i soggetti che si occupano dei contesti organizzativi, delle politiche occupazionali, e chi è in grado di offrire alla scuola una visione anticipatrice, più proattiva e che vada oltre il solo l’approccio reattivo. Quest’ultimo, infatti, è più coerente per soddisfare le esigenze più immediate dell’adeguamento dell’addestramento professionale, che però attiene solo a una parte dei mestieri tecnici.

È compito dello Stato, quindi anche della scuola, creare per i nostri giovani le condizioni dell’employability. Senza questa dimensione sarà molto difficile, se non impossibile, attuare qualsiasi riforma e quindi attrarre i giovani verso le professioni tecniche e fornire validi elementi agli orientatori per superare una visione ristretta e ormai consolidata e per rovesciare i vecchi paradigmi.

Categoria:
giorgio armani
È morto oggi, a 91 anni, Giorgio Armani, figura di riferimento nel mondo dell’alta moda e padre dell’omonima maison, fondata esattamente 50…
Giuseppe_Turani
È stato Vicepresidente e Direttore Editoriale della casa editrice ESTE (l’editore anche del nostro quotidiano). E ora è stato inserito nel…
Este +
Oltre 60 anni di esperienza nella produzione di contenuti di cultura d’impresa al servizio di imprenditori e manager. Dalla fine degli Anni…
App ESTE
In pochi mesi dal lancio di aprile 2023, l’App ESTE ha già raggiunto numeri notevoli: 41mila schermate visualizzate, circa 700 download e 2mila…

46.000 persone

ricevono la Newsletter di Parole di Management