Il cambiamento demografico all’origine del mismatch
“Mismatch” è un termine inglese divenuto di uso comune quando si analizzano e discutono i problemi del mondo del lavoro. Possiamo tradurlo in molti modi: “disallineamento”, “divario”, “scollamento”, “mancata corrispondenza”, “incongruenza”, ecc. L’idea di fondo è che le cose non quadrano, non corrispondono a quanto ci si aspetta, o si reputa giusto, appropriato. In questo senso ampio si potrebbe risalire al famoso detto del personaggio shakespeariano Amleto, “the time is out of joint: O cursed spite, that ever I was born to set it right!”, che evoca la difficoltà, il peso anche morale, del rimediare a una situazione ‘fuori sesto’ che però è il portato dei tempi.
Per limitarci a quanto è attuale ai nostri giorni per il lavoro e le organizzazioni, il mismatch riguarda il rapporto tra domanda e offerta nel mercato del lavoro, certamente. E quindi anche tra le competenze richieste e quelle disponibili, per linee sia verticali sia orizzontali, come spiega Ernesto Di Seri; ciò vale specialmente per temi emergenti, come la digitalizzazione e l’AI. Ma si può coglierne l’estensione al divario tra i processi di formazione e la domanda di lavoro qualificato da parte delle imprese, e quindi alla relazione debole o distorta tra il mondo dell’istruzione e i settori produttivi che hanno potenziale di sviluppo, ma restano poco attrattivi per le persone. È il caso delle figure di neoartigiani oggetto dell’articolo di Maurizio Busacca, Giovanna Muzzi e Roberto Paladini. Questi autori ricollegano il problema anche alla dimensione culturale, evidenziando la divergenza tra le narrazioni dal lato delle aziende e da quello dei potenziali lavoratori. Il mismatch coinvolge i rapporti tra generazioni (Sonia Pastori, Eliana Alessandra Minelli, Ilenia Bua); non è solo una questione economica o tecnica, è una questione di senso, di dignità, di riconoscimento (I Tafani). Sicuramente, non aiuta la percezione non positiva della funzione Risorse Umane, dentro le aziende, ma anche agli occhi del pubblico più ampio, evidenziata dall’analisi della rappresentazione che ne fanno molti film di successo, italiani e non solo (Luca Carollo, Marco Guerci, Edoardo Della Torre).
Al di là degli atteggiamenti dei soggetti, delle giovani generazioni in particolare, bisogna però cogliere che alla radice del problema c’è il cambiamento demografico, che sta ridisegnando la struttura della forza lavoro, come evidenzia Francesco Seghezzi. Si vede quindi che i contorni del mismatch si allargano; partendo dal cuore, o dal profilo tecnico del problema, dai dati del mercato del lavoro, si arriva a considerare aspetti più ampi, si sconfina nei mondi paralleli dell’istruzione, della cultura, della demografia, dei macro-trend sociali e della geo-politica.
Senza pensare di poter rimettere ‘in sesto’ i grandi sistemi, sarà utile chiedersi cosa si può fare al livello di azione delle organizzazioni, grandi e piccole, private e pubbliche, profit e non profit. Numerosi spunti in questo senso vengono dagli articoli compresi in questo numero della rivista. Ciò che li accomuna è l’invito a uscire dai compartimenti stagni per tutte le parti in causa: manager, Direttori del Personale, professionisti, ricercatori, docenti, formatori, consulenti, sindacalisti, studenti, lavoratori. Sarà importante lavorare sulle connessioni, ampliare il campo visivo, gettare lo sguardo oltre i confini abituali, riorientare l’attenzione a tematiche nuove, coltivare competenze più ampie di quelle che si scrivono nei curricula, in modo da ‘arare il campo fuori dal solco’ e porre problemi ‘fuori agenda’, come scrive Pier Luigi Celli nella risposta ai commenti sul suo ultimo libro.
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