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mercoledì, 17 Settembre, 2025

La formazione passa dalla conoscenza della cultura aziendale

“Perché si fa formazione? Per confermare o per trasgredire l’esistente? Si agisce per formare un mondo nuovo o per conformare quello esistente ai regimi di verità riconosciuti?”, si domandano Emanuela Fellin e Ugo Morelli, autori di un articolo pubblicato sul numero di Novembre 2019 della rivista Persone&Conoscenze. Una formazione che si limiti a rassicurare e […]
20 Dicembre 2019
Di: Francesco Varanini
20 Dicembre 2019
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“Perché si fa formazione? Per confermare o per trasgredire l’esistente? Si agisce per formare un mondo nuovo o per conformare quello esistente ai regimi di verità riconosciuti?”, si domandano Emanuela Fellin e Ugo Morelli, autori di un articolo pubblicato sul numero di Novembre 2019 della rivista Persone&Conoscenze. Una formazione che si limiti a rassicurare e confermare lo stato delle cose non serve a nessuno. Il cambiamento, i possibili –necessari– miglioramenti organizzativi e, soprattutto, i migliori risultati di business nascono dal prender coscienza della distanza tra ciò che si fa e ciò che si potrebbe fare, tra il come siamo e il come potremmo essere. Questa distanza è, in fondo, la misura dell’energia aggiuntiva che le persone si dichiarano disposte a utilizzare. La formazione, affermano ancora Fellin e Morelli, “è tanto più efficace, quanto più alimenta l’immaginazione”: “La formazione, quando riesce a sostenere apprendimenti efficaci, crea un salto dal possibile all’impossibile”. O meglio: dal possibile all’impossibile e ritorno. Immaginato l’impossibile è, infatti, possibile renderlo accessibile. La formazione è speranza di miglioramento. Accade in ogni azienda che le persone, al ritorno da un’attività formativa, notino la distanza tra ciò che la lezione ha portato a pensare e la situazione attuale dell’organizzazione in cui si lavora. Spesso il confronto è frustrante. La formazione sprigiona energie. Affinché, però, non generi ulteriore delusione e nuova depressione è necessario che l’impresa sia in grado di accogliere e valorizzare le energie attivate dalla formazione. Per questo è necessario un impegno comune. Il committente saprà che le persone torneranno dal percorso formativo ricche di nuova motivazione, ma anche di nuove aspettative. I trainer dovranno, pertanto, conoscere la cultura aziendale, per dosare la loro azione in modo da non generare aspettative troppo elevate. Purtroppo, l’attenzione per tutto questo sembra scemare. Più facile è accontentarsi di una formazione magari spettacolare, ma easy & fast, che, notano Fellin e Morelli, rischia pericolosamente di restare in superficie. Accade che si creda sempre meno nell’azione trasformatrice e incisiva della formazione. Accade che il docente assecondi troppo passivamente il committente. Accade che si finisca per mantenersi su temi e obiettivi generici, slegati dalla cultura aziendale e dalla reale situazione delle persone e dell’organizzazione. “Le performance sono sempre eccellenti; la qualità è sempre totale; le decisioni sono sempre ottimali e certe; le strategie sono sempre di successo; la leadership è sempre partecipativa e circolante; le persone sono sempre resilienti…”.

I limiti della pillole formative

Il tempo per la progettazione è sempre più scarso. La giornata di formazione si riduce a poche ore. Di recente, sono stato chiamato a partecipare a un progetto di formazione erogata sotto forma di ‘pillole’. Ho avuto modo di osservare come il budget a disposizione sia stato speso in gran parte per pagare una sala di ripresa, uno sceneggiatore e un regista, riducendo il compenso del formatore, ma non è questo il punto. Il progetto prevedeva che ogni formatore scrivesse quello che avrebbe altrimenti detto in aula; lo script doveva poi essere rivisto dallo sceneggiatore; a valle di questa stesura, il ruolo del formatore si risolveva nel leggere il testo sul gobbo, durante la ripresa, fingendo, per quanto possibile, spontaneità. Il formatore diventa così un locutore, o meglio: un avatar digitale di se stesso. Accade anche che il trainer stesso preferisca cambiar nome e chiamarsi Learning experience designer. Una figura derivata da quella dello User experience designer: disegnatore di interfacce di App. C’è qui una pretesa politicamente pericolosa: disegnare in anticipo, cioè subordinare a regole previamente definite, il modo in cui gli esseri umani, i cittadini, i lavoratori, possono fare esperienza. Cito ancora un passaggio dell’articolo di Fellin e Morelli: “La formazione che è andata di moda, da un certo momento in poi, è stata quella che ha promesso –e tuttora promette– soluzioni automatiche a problemi complessi, con proposte deterministiche e normative”. Certo, vediamo segni che portano a pensare che si preferisca oggi coltivare illusioni passeggere. Ma Fellin e Morelli nel loro articolo ci invitano a continuare a credere nella formazione che interroga e richiede impegno. D’altra parte non ci sono scorciatoie tecnologiche o surrogati che possano sostituire Socrate in aula. E poi è importante la compresenza personale, fisica, non solo virtuale, perché la memoria del corpo aiuta il pensiero.
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