Il valore di una carriera
Chi dice che in azienda si debba far carriera per contare qualcosa? Che il valore di una persona dipenda dalla sua carriera, dal titolo conquistato e apposto sul biglietto da visita (retaggio del secolo scorso) o dal numero di gradini organizzativi scalati nell’organigramma aziendale? In quest’ottica, il valore del lavoratore è legato al grado gerarchico […]

Chi dice che in azienda si debba far carriera per contare qualcosa? Che il valore di una persona dipenda dalla sua carriera, dal titolo conquistato e apposto sul biglietto da visita (retaggio del secolo scorso) o dal numero di gradini organizzativi scalati nell’organigramma aziendale? In quest’ottica, il valore del lavoratore è legato al grado gerarchico e all’ampiezza del suo potere di controllo, del ‘territorio organizzativo’ che gli è riconosciuto dalla posizione conquistata. Credo che nell’impresa dell’era post covid, della trasformazione digitale e del lavoro agile, questa visione sia ormai divenuta incompatibile con le dinamiche organizzative. L’incertezza dilaga, mentre la disponibilità di risorse, la chiarezza dei perimetri organizzativi e dei ruoli, l’instabilità degli obiettivi e la flessibilità imposta dalla volatilità dei mercati rendono necessario un diverso modo di approcciarsi, di pensare al concetto di carriera.
Finanche il sentire delle nuove Generazioni, Z o Y, mostra evidenti segni di insofferenza verso uno schema che lega la propria soddisfazione in azienda alla scalata gerarchica di cui si è capaci. Non c’è nei più giovani una disaffezione al lavoro né un’insofferenza verso il tempo sottratto alla vita personale. Non c’è una fuga dal tempo indeterminato. C’è, invece, la voglia di fare affidamento su se stessi e non sulle promesse fatte dai capi, c’è la spinta a cercare altrove e a scegliere per conto proprio le opportunità di sviluppo che non offre l’azienda, c’è l’insofferenza a svolgere lo stesso lavoro per tutta la vita, c’è il rifiuto del mito di una carriera da inseguire a tutti i costi che richieda obbedienza, fedeltà, omologazione.
Oggi il limite della gestione del personale in molte aziende, forse, è proprio qui, in questa incapacità di interpretare le attese delle nuove generazioni e i cambiamenti che la velocità della tecnologia e la turbolenza del mondo impongono ai tradizionali paradigmi del lavoro e della sua organizzazione. È giunto il tempo di riconoscere i danni che il mito della carriera ha provocato (e che continua a provocare) nel tessuto vitale delle organizzazioni. L’aspirazione al potere, vista come la chiave sia dell’affermazione personale sia della sopravvivenza stessa nella giungla delle relazioni ambigue alimentate da un’esasperata competizione tra colleghi, è l’effetto più dirompente del culto della carriera.
Lo status da conquistare determina l’importanza del proprio valore nel ‘Far West’ aziendale in cui i livelli apicali danno l’esempio e prosperano, esercitando con piena discrezionalità comando e controllo. L’epifania del potere è resa visibile dall’organigramma che formalizza e ufficializza la truppa dei dipendenti, ma anche gli stakeholder, le posizioni e le gerarchie. L’esclusione dall’organigramma è vissuta come una sconfitta professionale e un fallimento personale, diventando così la primaria causa di malessere e demotivazione per i più ambiziosi e spesso anche per i più bravi: un terremoto emotivo che si ripresenta puntualmente davanti a ogni cambiamento organizzativo. È la mappa del potere in azienda. Come ci ricorda Pier Luigi Celli (ex manager e dirigente d’azienda di grandi realtà) nelle sue testimonianze e nei suoi testi, si tratta di: “Uno strumento incapace di fornire indicazioni sulla vita reale, sul clima che si respira, sulle relazioni che s’intrecciano, sui disagi dell’ambiente lavorativo quotidiano”.
L’organigramma marca le distanze, allontana quando invece sarebbe necessario avvicinare. È tempo di immaginare una gestione diversa della carriera, essendo ben consapevoli che dovremo fare i conti con alcuni princìpi di fondo: innanzitutto con la convinzione che nulla è definitivo nelle organizzazioni e che cambiamenti sempre più frequenti sconsigliano di ingessare l’azienda in strutture rigide e ripetitive. La permanenza, infatti, è una delle caratteristiche verso cui tende il potere. Occorre, dunque, pensare ormai a carriere sganciate dalla mera visione gerarchica dell’azienda. Bisogna poi convincersi una volta per tutte che la pianificazione delle carriere è un mito delle Direzioni del Personale. Non è mai esistita, neppure nelle aziende di stampo fordista: nessun percorso di crescita ha mai seguito regole codificate.
La carriera del terzo millennio premierà l’orizzontalità: sarà sostanzialmente retributiva riconosciuta a chi ha (o manifesta) l’aspirazione a lavorare a più di un progetto con persone di differenti reparti o aziende. A chi preferisce incarichi a contatto con ciò che non si è mai fatto prima, con esperienze nuove e innovativi metodi lavorativi. A chi dimostra di saper giocare a centrocampo, stabilendo geometrie di gioco e lanciando la palla ai colleghi che tireranno in porta.
L’articolo è pubblicato sul numero di Ottobre 2022 di Persone&Conoscenze.
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Categoria: Risorse Umane, Formazione

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