L’occasione persa del Contratto di espansione

Era stato salutato come uno strumento che avrebbe consentito alle grandi imprese di coniugare un oculato turnover generazionale attraverso l’assunzione di profili professionali innovativi – quali, per esempio, Data scientist, Automation engineer, Cyber security manager –  con le sempre più strategiche esigenze di formazione continua, di aggiornamento e riqualificazione delle proprie risorse.

A meno di una sempre auspicata inversione di tendenza rispetto agli orientamenti attuali, ci troviamo invece a parlare, a solo quasi un anno dalla sua istituzione, dell’ennesima occasione persa, nonostante avesse tutte le caratteristiche per funzionare bene, ivi compresa l’attribuzione di un ruolo significativamente partecipativo alle organizzazioni sindacali.

Quale sorte, dunque, attende il Contratto di espansione, l’ammortizzatore sociale sperimentale ideato per le aziende con organico superiore ai mille dipendenti, impegnate nei processi di reindustrializzazione e riorganizzazione finalizzati a promuovere e consolidare un percorso verso la Digital transformation?

Pochi finanziamenti per sostenere il nuovo strumento

Stante l’esiguità dei finanziamenti messi a disposizione sia per favorire lo ‘scivolo’ del personale che si trova a non più di 60 mesi dalla maturazione del diritto alla pensione di vecchiaia o anticipata sia per fronteggiare una riduzione d’orario attraverso l’integrazione salariale, questo provvedimento è stato adottato soltanto da due primarie società del settore delle telecomunicazioni, ambito nel quale la componente tecnologica costituisce un elemento caratterizzante e imprescindibile.

Durante l’iter per l’approvazione della legge di Bilancio 2020, diverse erano state le proposte avanzate per trasformarlo da sperimentale a strutturale, ipotizzando anche una riduzione della soglia dimensionale di accesso passando da mille a 500 unità per ampliare la platea dei potenziali beneficiari, a prescindere dal settore merceologico di riferimento.

Tutto, però, è caduto nel vuoto, in primis la possibilità di garantire a questa misura, rientrante a pieno titolo nel bacino delle politiche attive del lavoro, nuovo ossigeno economico per sostenere e affiancare sforzi e investimenti delle aziende.

E pensare che il Contratto di espansione poneva l’Italia in una posizione di avanguardia a livello europeo, non essendo altrove disciplinato uno strumento che nella sua molteplicità applicativa riunisse in un unico contesto sinergico gli effetti positivi della formazione continua, della rimodulazione dell’orario di lavoro con sostegno al reddito, dell’assunzione di giovani e della collocazione in pensione, ‘accompagnata’ da una indennità, del personale con specifici requisiti anagrafico-contributivi.

Un modello per rilanciare la competitività delle aziende

Tutt’altro che trascurabile, anzi, è un’altra considerazione legata alla ‘virtuosità’ del Contratto di espansione dal punto di vista degli equilibri e delle dinamiche tra gli attori in campo. Esso, infatti, era stato concepito – tra gli altri aspetti – per consentire alle parti sociali di esercitare non più un ruolo di mera e, a volte, pregiudizialmente antagonista opposizione, ma di condivisione e di corresponsabilità nelle scelte imprenditoriali delle aziende stesse, che avrebbe potuto davvero far arrivare, dopo il cosiddetto Patto della fabbrica e l’Accordo sulla rappresentatività, al traguardo di un nuovo modello di relazioni industriali partecipativo.

Estendendo il campo di osservazione, questo strumento rappresentava in un certo senso anche una sorta di inversione di rotta in un Paese che storicamente, anche dal punto di vista legislativo, ha quasi sempre preferito adottare provvedimenti per gestire crisi piuttosto che basati su direttrici preventive dei conflitti.

Contratto di espansione, quindi, buono per una sola stagione, per poi affondare in via definitiva, preda dei meandri delle diverse e non convergenti sensibilità politiche in materia?

Ben altre, si dirà, sono le priorità, in questa fase oltremodo incerta, da individuare per la ricostituzione del tessuto produttivo del nostro Paese post Covid-19, soprattutto se si considera che la spina dorsale dell’economia italiana è costituita dalle Piccole e medie imprese (PMI), mentre il Contratto di espansione si rivolge alle grandi imprese.

Ma l’Italia di tutto ha bisogno in questo periodo, tranne che limitarsi al miope carpe diem e non, invece, contemplare una ‘visione’ di come vorremmo essere una volta usciti dal guado. A prescindere dalla dimensione delle imprese, il Contratto di espansione costituiva (in chiave ottimistica costituisce ancora) un meccanismo concreto e un modello lungimirante cui ispirarsi per sostenere e rilanciare la competitività delle nostre aziende e mitigare le conseguenze sul piano sociale e lavorativo del Coronavirus. Non ci vuole chissà quale illuminata task force per comprenderlo.

Contratto di espansione, grandi aziende, turnover, riqualificazione

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