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Gli spazi di lavoro negli hub creativi, una ricerca esplorativa

Negli ultimi anni si è assistito alla diffusione di nuovi spazi di lavoro: i coworking ne costituiscono la categoria più rappresentativa (Spinuzzi, 2012), ma a essa si affiancano altri luoghi come gli incubatori e gli acceleratori d’impresa, i FabLab, i LivingLab, i parchi tecnologici e gli hub creativi (Fortezza et al., 2016; Mariotti et al., 2017; Montanari e Mizzau, 2016).

In tutti i casi, si tratta di spazi popolati da diversi tipi di attori: prevalentemente lavoratori autonomi e liberi professionisti, ma anche dipendenti che operano in Smart working o che lavorano in aziende che decidono di fare di questi luoghi la propria base operativa.

Queste diverse figure professionali svolgono la propria attività lavorativa uno accanto all’altro, non necessariamente lavorando per la stessa azienda o sullo stesso progetto, ma condividendo lo stesso ambiente, le stesse risorse (postazioni, sale riunioni, stampanti digitali, ecc.) e gli stessi servizi (Capdevila, 2019; DeGuzman e Tang, 2011).

Questi nuovi spazi sono considerati ‘luoghi terzi’ (Furnari, 2014; Oldenburg, 1989) poiché diversi sia dall’abitazione personale, che molti lavoratori autonomi adibiscono a sede di lavoro soprattutto nelle prime fasi della carriera (Uda, 2013), sia contesti lavorativi tradizionalmente più formali e strutturati studi professionali, uffici, laboratori aziendali, ecc.).

Tale neutralità – insieme con l’elevata eterogeneità di profili e competenze – concorre a rendere questi luoghi particolarmente favorevoli all’interazione informale e alla discussione spontanea, caratterizzandoli come ambienti che possono dar vita a un’ampia varietà di relazioni per svolgere attività business e work oriented (Capdevila, 2019).

In particolare, tali luoghi sono funzionali alla collaborazione interprofessionale e alla sperimentazione di nuovi prodotti, servizi e modelli di business (Cartel et al., 2019).

Non è un caso, dunque, che questi spazi attraggano soprattutto lavoratori dell’economia creativa e knowledge worker (Andreotti, 2018) – professionisti del terziario qualificato che svolgono lavori centrati su creatività, gestione dell’informazione, comunicazione e conoscenza – e che siano spesso visti come intermediari o agenti di innovazione (Howells, 2006) all’interno di più ampi ecosistemi innovativi (Montanari, 2018).

Coerentemente con le caratteristiche precedentemente descritte, questi luoghi sono definiti in generale ‘spazi collaborativi’ o ‘spazi creativi’. Tali espressioni affiancano all’aggettivo che evoca la funzione o lo scopo principalmente associato al luogo (collaborazione e creatività), la parola “spazio”, assumendo che l’elemento tangibile, materiale dello spazio fisico giochi un ruolo fondamentale nel favorire tali processi.

Spazi collaborativi o creativi e workspace design

Da tempo gli studi organizzativi si occupano del rapporto tra spazio di lavoro e comportamenti organizzativi attuati dai singoli individui (Ashkanasy et al., 2014; Davis et al., 2011). Già dagli Anni 80 si sono affermati studi che hanno analizzato gli effetti del layout degli uffici in termini di soddisfazione, salute e performance dei dipendenti (Oldham e Rotchford, 1983; De Croon et al., 2005). Più recentemente l’interesse degli studiosi si è focalizzato sugli effetti prodotti dal passaggio dal modello d’ufficio chiuso all’open space.

Tra gli effetti positivi, è stato evidenziato come l’elevata prossimità degli individui, che contraddistingue gli uffici a configurazione aperta, possa promuovere l’incontro e l’interazione spontanea, facilitando sia le relazioni funzionali all’attività lavorativa (scambio di informazioni, condivisione di conoscenza o il problem solving congiunto) sia i cosiddetti expressive tie, come per esempio le relazioni amicali.

Queste ultime sono molto importanti ai fini lavorativi in quanto, oltre ad avere effetti positivi sul benessere psicologico degli individui, costituiscono un’importante fonte di supporto emotivo, particolarmente rilevante nei processi di collaborazione e innovazione.

Tuttavia, lavorare negli open space può avere anche effetti negativi, tra i quali il cosiddetto crowding. Eccessivi livelli di rumore e distrazione e la mancanza di riservatezza possono ridurre, infatti, il livello delle prestazioni lavorative e generare malcontento tra i lavoratori per la mancanza di uno spazio adeguato allo svolgimento delle attività (Congdon et al., 2014).

Inoltre, se nel modello chiuso l’assegnazione stabile della postazione contribuisce all’efficienza e a una chiara definizione dell’identità, l’occupazione libera e variabile delle scrivanie, tipica degli open space, pur favorendo la prossimità, può promuovere comportamenti difensivi e orientati al controllo che ostacolano relazioni e collaborazione (Khazanchi et al., 2018; Irving et al., 2019).

Un altro tema di grande attualità è la relazione tra elementi spaziali del luogo di lavoro – sia intangibili come l’illuminazione, i suoni o i colori sia concreti come l’arredamento (Dul e Ceylan, 2014; Meinel et al., 2017) – e la creatività (De Molli, 2019).

Per esempio, spazi ampi trasmettono una sensazione di libertà maggiore rispetto a quelli stretti e conducono le persone a ragionare più liberamente. Analogamente, i suoni di sottofondo permettono di sviluppare maggiormente la creatività, mentre la presenza di colori troppo accesi mette in allerta e porta a inibire la creatività (Steiner, 2006).

Il dibattito in letteratura si presenta ampio e variegato, giacché non sembrano emergere conclusioni univoche su quali caratteristiche spaziali apportino maggiori benefici ai lavoratori. Il presente articolo vuole approfondire questo tema, investigando come le caratteristiche fisiche degli spazi collaborativi possano influenzare le dinamiche lavorative e relazionali dei loro frequentatori.

Nel fare ciò verrà adottato un approccio coerente con la prospettiva della sociomaterialità, secondo cui non sono rilevanti solo le caratteristiche oggettive degli di spazi di lavoro, ma anche le modalità con cui i singoli si relazionano con essi (Orlikowski e Scott, 2008).

Secondo questa prospettiva, a giocare un ruolo rilevante non sono solo le caratteristiche fisiche dei luoghi di lavoro, ma la dimensione più estetica ed evocativa dello spazio di lavoro che viene inteso come artefatto culturale (Carlile et al., 2013; Kornberger e Clegg, 2004).

In altri termini, questi studi sottolineano come, attorno alle caratteristiche fisiche ed estetiche di uno spazio si plasmino non solo obiettivi e comportamenti lavorativi, ma anche processi cognitivi di apprendimento, percezione e identificazione che contribuiscono a definire il senso e l’identità dei membri di un’organizzazione.

Questi processi identitari si rivelano molto importanti nel contesto socioeconomico contemporaneo, soprattutto per i ‘nuovi lavoratori’ (knowledge worker, gig worker, ecc.) che, a causa degli elevati livelli di incertezza e insicurezza che contraddistinguono le loro condizioni lavorative, sperimentano forti tensioni emotive orientate alla costruzione non solo di un’identità lavorativa, ma anche di un sé vitale (Cnossen e Bencherki, 2019; Petriglieri et al., 2019).

Poiché sono proprio questi i lavoratori che frequentano gli spazi collaborativi, la prospettiva sociomateriale pare la più opportuna per esplorare questo fenomeno emergente e contemporaneo.

L’articolo integrale è pubblicato sul numero di Gennaio-Febbraio 2020 di Sviluppo&Organizzazione.
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