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Industria, politica e potere: Cesare Romiti, il manager italocentrico

Giuseppe Berta, storico dell’industria e autore ESTE, traccia un ricordo del manager recentemente scomparso.

“È il momento di rifare l’Italia. Come nel Dopoguerra serve un grande Piano Marshall che liberi la forza e l’entusiasmo dei giovani e accenda l’amore per questo Paese”. Sono parole di Cesare Romiti, scomparso il 18 agosto 2020: era il 2012 quando venne intervistato in merito alla pubblicazione del testo considerato il suo ‘testamento spirituale’, la Storia segreta del capitalismo italiano.

Quello di otto anni fa era un manager che non si perdeva nei ricordi del passato, ma parlava del futuro. Dirigente d’azienda controverso, è stato protagonista della storia della Fiat, di certo la più importante azienda italiana di sempre, ma anche di vari episodi dell’industria italiana, fino alle vicende giudiziarie legate a Mani pulite – triste capitolo che ha segnato una svolta senza ritorno nella storia economica e politica del nostro Paese – uscendone – come la stessa Fiat – senza alcuna ripercussione legale.

Romiti credeva nel valore dell’esempio come la più alta forma di autorità e alle pareti dello studio milanese i suoi tre esempi stavano appesi alle spalle della scrivania: l’Avvocato Gianni Agnelli, Enrico Cuccia e Papa Wojtyla. L’industria, la finanza, la fede. Ora che il manager ha lasciato questa vita, il suo testamento spirituale acquisisce il valore di storia e di memoria. Parole di Management ha chiesto aiuto a Giuseppe Berta, uno dei più famosi storici dell’industria, già docente della materia presso l’Università Bocconi, autore della rivista di ESTE Sistemi&Impresa, nonché relatori agli eventi della casa editrice che edita il nostro quotidiano.

Lo scontro con i sindacati alla Fiat

Non è facile, secondo Berta, definire Romiti. Un po’ per il profilo particolare che caratterizza i manager italiani, un po’ perché è stato più che un manager, diventando, per esempio, imprenditore a sua volta, qualsiasi etichetta sembra andargli stretta. Teneva molto, in perfetto “spirit de Milan”, a sottolineare il timbro della sua figura. Amava il consenso, ma puntava a ottenerlo con i risultati, prendendo decisioni in prima persona, senza mai rinviarle, come ha ricordato di lui l’ex Premier Mario Monti.

“Quando ebbe davvero il potere esecutivo aziendale nelle proprie mani, non rinunciò mai a perseguire la personalizzazione, la sottolineatura di un’impronta umana fortissima e a rimarcarne i caratteri (che non erano esenti da una certa grevità)”, dice Berta. Nel suo libro-intervista Questi anni alla Fiat, che ammiccava a La mia General Motors di Alfred P. Sloan, Romiti si presentava come una tipica storia italiana, in cui contava molto il legame con la politica e il potere.

Nel lungo periodo in cui diresse la Fiat, da cui uscì solo nel 1998 per raggiunti limiti di età, Romiti guidò l’azienda come “un’autentica struttura di potere, in una posizione centrale fra gli altri poteri italiani”. Questo atteggiamento indusse molti critici a lamentare una certa ‘arroganza’ del potere Fiat. Il manager, come spiega Berta, “era convinto di aver conquistato questa prerogativa con il colpo sul quale aveva scommesso la propria carriera nel 1980”: “La Fiat usciva da un periodo a dir poco opaco, con le fabbriche gravate dal personale, con una conflittualità non domata nei reparti, con la minaccia del terrorismo che ogni giorno faceva temere ai suoi dirigenti di essere nel mirino delle Brigate Rosse e Prima Linea”.

I dirigenti del Personale lo persuasero a una reazione: dopo la seconda crisi petrolifera, l’industria dell’auto doveva riorganizzarsi, non solo rimodernando la produzione, ma liberandosi al contempo di un eccesso di lavoratori ormai giunti al numero di 50mila e oltre. Romiti scelse la via dello scontro frontale con la Federazione lavoratori metalmeccanici, allora ancora unitaria, a costo di scontentare le forze politiche che governavano il Paese. Questo ‘lavoro sporco’ non toccava agli Agnelli, che fecero un passo indietro e al manager rimase il fardello di un conflitto epocale per l’impresa italiana.

L’operazione riuscì, nonostante i 35 giorni di resistenza e di mobilitazione sindacale. La Marcia dei 40mila (per alcuni 30mila, unico caso in cui la Questura avrebbe alzato i numeri) indetta dal Coordinamento quadri e capi intermedi con il sostegno dell’azienda mostrò la precarietà della mobilitazione sindacale, che fu misconosciuta anche dai sindacati confederali. La vittoria di Romiti rilanciò l’azienda e lui stesso. Da allora, concentrò il potere nelle proprie mani e in quelle dei fedelissimi fino alla “pensione”.

I tentativi (falliti) di internazionalizzazione

I primi anni sotto la sua guida furono densi di successi per la Fiat. La Uno, presentata in Usa a Cape Canaveral, fu l’auto più venduta in Europa, quando Fiat e Volkswagen si battevano per il primato sul mercato continentale. L’immagine del capitalismo italiano, come da titolo del suo libro, conobbe una nuova età dell’oro. Ma il successo non era destinato a durare a lungo. “L’orizzonte di Romiti, probabilmente, risentiva di un certo italocentrismo, unito al fatto di non essere uomo di prodotto”, ricorda Berta. Fu forse questa tendenza a indurlo a compensare la crisi dell’auto differenziando i settori industriali, per cercare di assicurare la redditività del gruppo.

Romiti tentò così la via della conglomerata per il consolidamento del gruppo Fiat, in parallelo a un certo ripiegamento di Fiat Auto: venne, però, dapprima scartata la possibilità di una fusione internazionale con Ford e poi, nel 1990, sfumò anche l’acquisizione di Chrysler. Umberto Agnelli era fortemente contrario a questa operazione: in effetti, Fiat non disponeva di un management in grado di dirigere attività di tali dimensioni in America. Tuttavia, questa mancata internazionalizzazione di Fiat ne accelerò il ridimensionamento.

Quando Romiti lasciò il gruppo nel 1998, raggiunti i 75 anni, esso mostrava già evidenti segni di declino, destinati ad accentuarsi negli anni successivi. “Ecco perché alla distanza, l’esperienza di manager di Romiti, protagonista di una lunga stagione dell’economia italiana, appare inscindibilmente legata alla storia del Novecento”, dice Berta.

Anche il Presidente della Repubblica Sergio Mattarella ha ricordato Romiti come “un importante protagonista di una impegnativa e controversa stagione delle relazioni industriali e del capitalismo italiano, in presenza di profonde trasformazioni dei mercati internazionali e di spinta a modifiche negli assetti del nostro Paese”.

Resta il fatto che quella che oggi è FCA è davvero il pezzo più importante della nostra storia industriale. Sono sempre stati i manager a fare la differenza, anche con stili opposti; pensiamo al mantra di Sergio Marchionne, CEO di Fiat qualche anno dopo Romiti: “Il nostro mestiere è fare automobili”. Chissà se Romiti avrebbe detto lo stesso.

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Chiara Pazzaglia

Bolognese, giornalista dal 2012, Chiara Pazzaglia ha sempre fatto della scrittura un mestiere. Laureata in Filosofia con il massimo dei voti all’Alma Mater Studiorum – Università degli Studi di Bologna, Baccelliera presso l’Università San Tommaso D’Aquino di Roma, ha all’attivo numerosi master e corsi di specializzazione, tra cui quello in Fundraising conseguito a Forlì e quello in Leadership femminile al Pontificio Ateneo Regina Apostolorum. Corrispondente per Bologna del quotidiano Avvenire, ricopre il ruolo di addetta stampa presso le Acli provinciali di Bologna, ente di Terzo Settore in cui riveste anche incarichi associativi. Ha pubblicato due libri per la casa editrice Franco Angeli, sul tema delle migrazioni e della sociologia del lavoro. Collabora con diverse testate nazionali, per cui si occupa specialmente di economia, di welfare, di lavoro e di politica.

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