Innovazione e competenze per il lavoro che cambia

Secondo il World Economic Forum, il 65% dei bambini che oggi frequenta la scuola elementare da grande farà un mestiere che ancora non esiste. L’evoluzione tecnologica, con la nascita di nuovi saperi e lo sviluppo di nuove competenze, sta già cambiando il mondo del lavoro. E nel prossimo futuro la trasformazione sarà sempre più rapida in ogni settore.

“Il lavoro ci sarà, ma cambierà: occorre più innovazione e più formazione per prepararsi”, raccomanda Tiziano Treu, Presidente del Cnel. Il Consiglio nazionale dell’economia e del lavoro ha di recente aperto le porte del suo ‘parlamentino’ a un confronto tra istituzioni, aziende e parti sociali sulle nuove competenze e sui nuovi modelli organizzativi richiesti dall’era digitale.

“Vogliamo capire come sviluppare il futuro digitale in Italia, come sta accadendo in tutta Europa. Le macchine possono aiutare molto se gli uomini sanno guidarle”, puntualizza Treu. Non è un caso, dunque, che, accanto a un piano di investimenti da 20 miliardi di euro sull’Intelligenza Artificiale (AI), l’Unione europea abbia scelto di darsi precise linee direttrici etiche per il suo sviluppo e stia monitorando l’impatto sociale sul mercato del lavoro delle tecnologie intelligenti. L’Ue punta infatti a un’AI di qualità: sistemi tecnicamente robusti e sicuri, paradigmi rispettosi della vita privata, governance dei dati e trasparenza.

“Le profezie che ipotizzavano un’occupazione distrutta dall’avvento dell’AI non si sono realizzate”, fa notare Franca Salis Madinier, membro del Comitato Economico e Sociale Europeo. “L’AI non è che uno sviluppo estremo delle capacità digitali dell’uomo e dev’essere al servizio del progresso. Non scompariranno i posti di lavoro, ma cambieranno le professioni: in questa transizione dovremo aver cura che non ci siano perdenti”.

Governare la transizione digitale vuol dire adottare una strategia europea armonizzata sulle implicazioni etiche, sulle certificazioni dei sistemi, sulle regole sociali e fiscali. Ma significa soprattutto dialogare con le aziende e le amministrazioni e investire nella formazione iniziale e professionale. È la strada che hanno già intrapreso grandi aziende come IBM e Leonardo, che hanno scommesso su modelli di life-long learning attitude per stimolare le proprie persone a evolvere di continuo nella formazione.

Le grandi imprese puntano sul re-skilling

IBM, in particolare, si è posta tre imperativi: aiutare i dipendenti ad acquisire le giuste competenze, garantire la massima trasparenza nelle scelte di employee transition, offrendo frequenti opportunità di re-training, coinvolgere i dipendenti nelle trasformazioni in atto.

“Cerchiamo persone che abbiano voglia di imparare e seguiamo con attenzione l’evoluzione delle skill dei nostri dipendenti”, assicura David Barnes, Global Workforce Policy Vicepresident di IBM. “Bisogna proteggere i lavoratori, non proteggere il lavoro o il passato”, dice.

Anche in casa Leonardo si punta a una trasformazione delle competenze, affiancando alle eccellenze tecnologiche maggiore dimestichezza con le soft skill. A esser cambiato per primo è lo stile di leadership, che ha abbandonato il sistema del comando e controllo per aprirsi a una dimensione più collaborativa e più pronta alla condivisione del dato.

“La digitalizzazione non è un viaggio che si conclude in cinque o 10 anni, ma una trasformazione continua”, spiega Simonetta Iarlori, Chief People, Organization and Transformation Officer di Leonardo. “La base del digitale è il rapporto one to one e perciò vanno incentivate le skill di cooperazione, magari affiancando le persone più curiose a quelle che hanno già una destrezza digitale più spiccata. E non sono solo i giovani”.

Il cambiamento dei processi di lavoro investe tutti, professionisti esperti e nativi digitali. Porta con sé la necessità di imparare nuovi linguaggi e nuove tecniche e impone di ripensare il modello formativo finora adottato. I metodi tradizionali di formazione professionale vanno ripensati, così come le classificazioni delle competenze: quella relativa al settore metalmeccanico, per esempio, risale al 1973.

“La realtà 4.0 è soprattutto interconnessione tra mondi diversi: è singolare che su questo scuola e lavoro non riescano a trovare punti di connessione”, sottolinea Pierangelo Albini di Confindustria. Il continuo tentativo di normare un processo in divenire e la competizione tra soggetti che vogliono governare il fenomeno hanno avuto come conseguenza, secondo Albini, una crisi di autonomia delle parti sociali.

Per Tiziana Bocchi della Uil, il passaggio dalla verticalizzazione delle decisioni alla leadership collaborativa deve fare un ulteriore passo avanti verso la maggiore partecipazione dei lavoratori. “La Quarta rivoluzione industriale, determinata dai processi di robotizzazione e digitalizzazione, dev’essere un’opportunità per creare nuove competenze e nuova occupazione”.

La strategia europea e il contrasto al mismatch tra domanda e offerta

Oltre alle professionalità, però, mancano le infrastrutture. Secondo i dati comunicati dal Ministero per lo Sviluppo Economico, al 31 ottobre 2019 appena il 20% dei cantieri aperti per il passaggio della Banda Ultra Larga risulta chiuso e solo nel 54% di questi è stato già effettuato il collaudo dei dati. Sono 7.554 i Comuni da raggiungere.

“Come Europa siamo ancora indietro sul tema dell’innovazione tecnologica”, ammette Marco Bellezza, Consigliere per l’Innovazione e le Telecomunicazioni del Mise. “Stiamo, però, provando a incentivare le esperienze virtuose garantendo la presenza del nostro Paese a tutti i tavoli europei, con la partecipazione al Digital Europe Program e la presidenza della European Blockchain Partnership”.

Non si tratta, infatti, solo di incentivare la formazione professionale. La carenza di skill tecnologiche è evidente anche in molti profili che si affacciano per la prima volta al mondo del lavoro.

Lo confermano i dati sulle immatricolazioni nelle università italiane: gli studenti che scelgono di iniziare un percorso accademico nelle materie STEM sono il 29,7%, appena il doppio di coloro che si iscrivono a facoltà di Arti e Humanitas (14,8%). Il dato è ancora più rilevante se si guarda alla componente femminile: la quota di studentesse che optano per corsi di studio scientifici e tecnici è la stessa di quelle che scelgono facoltà letterarie (un quinto sul totale delle matricole).

“C’è un problema di chance occupazionali”, avverte Salvatore Pirrone, Direttore dell’Anpal, l’Agenzia nazionale per le politiche attive del lavoro. “La scelta dei giovani e quindi la futura domanda di lavoro va resa consapevole, non in forza di un orientamento psicoattitudinale, ma fornendo informazioni reali su cosa offre il mondo del lavoro”.

“Occorre creare politiche di impiego efficaci per ridurre il mismatch tra domanda e offerta, che in Italia è soprattutto territoriale, ma anche di competenze”.

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Giorgia Pacino

Articolo a cura di

Giornalista professionista dal 2018, da 10 anni collabora con testate locali e nazionali, tra carta stampata, online e tivù. Ha scritto per il Giornale di Sicilia e la tivù locale Tgs, per Mediaset, CorCom - Corriere delle Comunicazioni e La Repubblica. Da marzo 2019 collabora con la casa editrice ESTE. Negli anni si è occupata di cronaca, cultura, economia, digitale e innovazione. Nata a Palermo, è laureata in Giurisprudenza. Ha frequentato il Master in Giornalismo politico-economico e informazione multimediale alla Business School de Il Sole 24 Ore e la Scuola superiore di Giornalismo “Massimo Baldini” all’Università Luiss Guido Carli.

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