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Referendum, tanta politica e poco lavoro

In Italia, Paese dove tutto spesso tutto si riduce a ‘pro’ e ‘contro’ e dove ogni cosa sembra una questione di vita o di morte, si è appena concluso il voto dei referendum sul lavoro. Prima dell’apertura delle urne, settimana dopo settimana si è arrivati a considerarli come una valutazione sull’operato del Governo. Sappiamo com’è andata, con il mancato raggiungimento del quorum (intorno al 30%, ben lontano dalla percentuale richiesta) che di fatto legittima la posizione dell’Esecutivo. È chiaro che per le future consultazioni sarà necessario ripensare il ruolo e l’efficacia dei referendum.

A guardare meglio, però ci sono anche altre letture interessanti che si possono fare a urne chiuse. In particolare, una riguarda gli elettori: vista l’affluenza molto bassa, gli italiani hanno voluto sottolineare come lo strumento referendario non possa supplire all’ordinaria attività del Parlamento, l’organo deputato ad affrontare le tematiche tecniche, come quelle che riguardano la materia del lavoro.

In secondo luogo, comunque la si pensi, i corpi intermedi – come partiti politici, associazioni di categoria, rappresentanze civili – sono i veri vincitori di questa esperienza di referendum. Lo sono perché il ruolo di mediare – facendo sintesi delle reali esigenze espresse dai promotori del voto – richiede prima di tutto una condivisione e, in seguito, la costruzione di un’opinione politica, che non si realizza in poche settimane a colpi di slogan da una e dall’altra parte.

Lavoro e cittadinanza alla prova del voto

Guardando ai numeri della partecipazione ai seggi, c’è da rilevare che l’affluenza del 30,6% è un dato in calo rispetto al passato: hanno votato circa 18 milioni di persone, con una distribuzione geografica che ha visto prevalere il Nord Italia (32%), seguito dal Sud (29%) e poi dal Centro (28%). Nonostante l’astensionismo, i voti favorevoli ai vari quesiti hanno raggiunto una media del 65%, mentre i contrari si sono attestati al 35%; il 2% delle schede è risultato nullo e l’1% bianco.

Venendo ai contenuti del referendum, in merito all’abrogazione del Jobs Act, ciò che i promotori del “sì” sono riusciti a far passare è stata la battaglia sulla ‘reintegra’ prevista dall’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori, superato dal Jobs Act di Renzi nel 2015. In realtà, già da tempo i tribunali hanno modificato il Jobs Act, irrobustendo le tutele per i nuovi contratti. In discussione, invece, c’era un programma politico, inaugurato da Renzi: le tutele contro i licenziamenti illegittimi (ossia la reintegra) non sarebbero state messe in discussione.

Rispetto ai licenziamenti nelle piccole imprese, va ricordato che già la Corte costituzionale aveva invitato a rivedere i risarcimenti in queste realtà, per cui il Parlamento, in ogni caso, è stato chiamato a rivedere il trattamento per le aziende che, in alcuni casi, tanto ‘piccole’ non sono.

Sulla causale nei contratti a termine, ci aveva provato il Movimento 5 Stelle con il Decreto Dignità: purtroppo una maggiore rigidità nel mercato del lavoro non ha mai portato più occupazione. L’unica cosa a crescere, in caso di raggiungimento del quorum e la vittoria del sì, sarebbe stato il contenzioso: purtroppo il lavoro non si crea per decreto, ma incoraggiando l’impresa e favorendo una crescita della produttività.

Infine, c’era da esprimersi sulle responsabilità del committente – forse il quesito referendario più trasversale di tutti – e in questo caso viene da chiedersi: come non votare “sì” a favore della responsabilità solidale tra committente e appaltatore? Peccato che questa non fosse in discussione: gli italiani erano chiamati a votare solo rispetto al caso che avrebbe fatto eccezione alla regola generale, ovvero gli infortuni dovuti a rischi specifici dell’appaltatore.

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Luigi Bastianello

Luigi Bastianello

HR Manager con ampia esperienza del mondo Manufacturing. Studia e analizza i contesti sempre più mutevoli per supportare Persone e Business. Seleziona persone che in ogni ruolo possano contribuire con la propria peculiarità, promuovendo progetti e politiche retributive mirate a favorire il benessere e la meritocrazia diffusa. Da sempre affascinato dalla relazione tra Psicologia, Diritto e dal mondo Produttivo in generale. Lascia un impiego in una Agenzia per il Lavoro per conoscere come “si fanno le cose” e studiare l’amministrazione e le regole che ci stanno dietro.  Dopo la laura in Filosofia decide di frequentare – lavorando – un Master in Gestione Risorse Umane, studiando costantemente e mi documentandosi per approfondire il diritto del lavoro, le tematiche commerciali, di posizionamento del prodotto e l’organizzazione aziendale, abbracciando la filosofia lean.

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