Italia_Pil

Chi inizia male (il Millennio) è a metà del Pil

Nel decennio 1998-2008 la Germania, cui si era agganciata una buona parte delle filiere produttive dell’Italia, ha accumulato un gap di crescita di almeno il 10% rispetto ad altri Paesi dell’Europa occidentale. Tale situazione ha purtroppo tenuto le aziende italiane lontane dai mercati e dallo sviluppo dei nuovi modelli di business. Le conseguenze di ciò le conosciamo: nel Fashion, per esempio, le aziende francesi (e non solo) si sono impossessate di buona parte delle nostre filiere (ma anche dei marchi), portando i fatturati nelle loro corporate; nell’Automotive, invece, le aziende tedesche ci hanno trascinato nella china del declino del business dei motori termici, dandoci sempre minori volumi, anche perché hanno trovato fornitori a minor costo nell’Europa dell’Est; le nostre imprese dell’Automotive sono rimaste ‘orfane’ su tali filiere poco produttive od obsolete, senza prospettive di sviluppo, in quanto tagliate fuori dallo sviluppo delle nuove tecnologie.

Dal 2008, mentre la Germania si è ripresa recuperando il gap di crescita che aveva accumulato nei confronti della Francia e della Spagna (e aveva addirittura accumulato un +37% relativo rispetto all’Italia), le nostre aziende non sono riuscite a produrre sufficiente innovazione per stare al passo degli altri Paesi. Non avendo avuto capacità e value proposition adeguate ai nuovi modelli di business, siamo così stati inevitabilmente tagliati fuori anche dalle evoluzioni dei modelli di business che si stavano affermando. E non abbiamo neanche trovato spazi indipendenti in cui inserirci.

L’illusione di restare competitivi 

Nel frattempo, aziende di Paesi con minori costi produttivi hanno iniziato a fare concorrenza sui tradizionali mercati delle nostre aziende con prodotti-servizi simili. Per poter competere con loro, le aziende italiane, non riuscendo a migliorare la loro efficienza, e ovviamente a ridurre i salari, hanno iniziato a de-localizzare le produzioni in luoghi a minor costo del lavoro. Il fenomeno ha avuto anche una certa rilevanza in termini di riduzione del Prodotto interno lordo nazionale, ma anche impatti sulle strategie del sistema economico del Paese, sull’occupazione e sulle entrate fiscali. Tale ‘rimedio’ ci aveva illuso di poter mantenere un sistema produttivo competitivo e non ci ha costretto (purtroppo) a sviluppare nuove innovazioni. L’Italia si è così nascosta le reali priorità, arroccandosi intorno all’illusione che per garantirci un futuro sarebbero stati sufficienti il Made in Italy e le PMI. Nel frattempo ci siamo beati delle ‘strabilianti’ innovazioni di alcune piccole aziende da mostrare in prima pagina (con volumi decisamente insignificanti per il Pil) a conferma della genialità del popolo italico.

È così purtroppo iniziato per l’Italia un periodo ancora peggiore rispetto agli anni precedenti, con perdite di Pil non solo relative, ma anche assolute (-8% dal 2007 al 2013). Che cosa è successo in quegli anni negli altri Paesi che, invece, non è successo da noi? Si è verificato un grosso incremento del business dei Servizi, cui si deve più dell’80% della crescita del Pil. In Italia, invece, il focus è rimasto sul Manufacturing: di ciò è stata anche complice, in parte, la precedente miope strategia di aggancio previlegiato alle sole aziende dell’Automotive tedesche. La stessa Germania, in quegli anni, ha infatti iniziato ad adottare nuovi paradigmi e ci ha lasciati soli, inguaiati nei modelli precedenti.

Se si guardano i diagrammi temporali confrontando Germania e Italia, si vede che dal 2008 in poi li abbiamo proprio ‘persi di vista’. Siamo stati purtroppo, in un qualche modo, ‘scaricati’ persino dalle loro tradizionali filiere dell’Automotive che, prima ancora di passare al green, hanno preferito rivolgersi, per le nuove produzioni, ai Paesi dell’Europa dell’Est, molto meno costose (ancora oggi il loro costo del lavoro è di circa 10 euro l’ora contro i nostri 29-32). L’Italia, purtroppo, è rimasta sui modelli di manufacturing di prodotti tradizionali e addirittura ha continuato a cercare di tenere in piedi industrie energivore dove la differenza la fanno il costo dell’energia, la tecnologia e le economie di scala. Il pensare di poter essere competitivi con imprese energivore in un Paese senza energia nucleare, con costi dell’elettricità comunque superiori a quella degli altri Paesi è stato una miopia (incoscienza?) assoluta. Ma sappiamo che le ragioni di ciò sono state ben altre, cioè le stesse per cui non abbiamo mai avuto un piano industriale: motivi politici e di incompetenza della classe politica, ma anche dei nostri imprenditori.

Il colpevole ritardo nella servitizzazione

Ma che cosa è successo dunque fuori dall’Italia nel periodo tra il 2008 e il 2013? In tali anni, il mondo dei Paesi ‘maturi’ ha visto una grande crescita di nuovi servizi; tale evoluzione ha coinvolto fortemente anche il Manufacturing, cambiandone i suoi precedenti modelli di business. Infatti, a fronte di nuovi servizi, un grande contributo all’aumento del Pil nei Paesi occidentali l’ha fornito la cosiddetta ‘Strategia della servitizzazione dei prodotti’, conseguenza della forte modificazione delle logiche di vendita-acquisto del mercato, anche dei prodotti fisici. Infatti questi hanno iniziato sempre più a essere venduti attraverso la loro fruizione come servizio, anziché come prodotti venduti e acquistati come tali: si pensi alle auto fruite attraverso noleggi di lungo termine (il modello chiamato ‘as a service’) o attraverso flotte aziendali gestite come servizio, al car sharing, ecc… Analogamente si pensi agli smartphone fruiti come servizio in abbonamento pagato all’operatore telefonico, al servizio della gestione della vigilanza industriale e domestica attraverso il servizio completo ‘attrezzature-gestione’ (dalla videocam, alle App di controllo, al servizio intervento della vigilanza…).

Ogni settore ha avuto evoluzioni in tale senso, sia nel B2C sia nel B2B. Oramai più della metà dei volumi produttivi arriva ai clienti attraverso forme di servizio anziché attraverso la vendita diretta. I modelli di business relativi sono spesso totalmente in mano ad aziende di servizi (disintermediando i produttori dei prodotti stessi), che magari sono le stesse che possiedono le tecnologie digitali per la loro gestione: quest’ultimo è stato il passo successivo dal 2013 in poi, quando aziende come Amazon o Google hanno cominciato a entrare in alcuni mercati verticali. Anche le aziende tradizionalmente produttrici di prodotti non consumer sono diventate realtà in cui la maggior parte del fatturato è oggi costituito dal business dei servizi (IBM, General Electric, ABB, Ericsson, ecc..).

L’Italia ha pagato molto caro il fatto di non essere entrata subito in questa nuova dimensione del business, sia per non aver cavalcato l’onda della possibile servitizzazione dei prodotti (questo avrebbe potuto farlo facilmente), sia per non avere sviluppato nuovi servizi innovativi. Tutt’ora siamo penultimi tra i 50 più importanti Paesi mondiali a livello innovativo dei servizi e nelle barriere all’ingresso a riguardo: anche i Paesi dell’Est europeo e la Turchia sono nettamente meglio posizionati dell’Italia…

Leggi anche l’articolo “Mal di Pil (dell’Italia)”

servitizzazione, Pil Italia, modelli business


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Giorgio Merli

Giorgio Merli è autore di numerosi libri e articoli sul management pubblicati in Europa e negli Usa; è consulente di multinazionali e Governi, oltre che docente in diverse università in Italia e all’estero. È stato Country Leader di PWCC e di IBM Business Consulting Services

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