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Chi trova un lavoratore se lo tiene (a tempo indeterminato)

Il posto fisso è (di nuovo) realtà. Non è il titolo dell’ultimo film di Checco Zalone, ma la fotografia scattata dall’Istat a febbraio 2024 sul mercato del lavoro in Italia: il contratto a tempo indeterminato riguarda oggi quasi 16 milioni di persone e ha registrato una crescita, rispetto a gennaio 2024, di 142mila unità, mentre sono continuati a calare sia i contratti a termine (76mila in meno) sia i lavoratori autonomi (26mila in meno).

Si tratta già di un record storico, generato dalla crescita che prosegue dalla fine della pandemia e complice di un trend particolarmente positivo per il nostro mercato del lavoro. Le previsioni dell’ufficio studi della Confederazione generale italiana dell’artigianato (Cgia), inoltre, dicono che il tasso complessivo degli occupati è destinato a crescere ulteriormente e si prevede che entro il 2025 si passerà dai 23 milioni di persone che lavorano – mai così tante nella nostra storia – a quasi i 24 milioni (su 37,5 milioni).

Ma a che cosa è dovuto il ritorno in auge del ‘posto fisso’? Il primo elemento da considerare è che nel corso dell’ultimo decennio si è beneficiato dell’effetto della riforma Fornero che, aumentando l’età della pensione, ha fatto sì che i lavoratori in età pensionabile (e storicamente assunti principalmente con contratti a tempo indeterminato) rimanessero attivi nel mercato del lavoro più a lungo rispetto al passato. In secondo luogo, il fenomeno è imputabile alla spinta data dalle numerose decontribuzioni per le imprese che assumono i lavoratori con contratti stabili: proprio nei giorni a ridosso della Festa del Lavoro del 2024 si sta discutendo – ancora una volta – un’iniziativa destinata a sbloccare quella che è stata definita “super deduzione” sulle assunzioni, prevista dal primo modulo della riforma fiscale, la quale prevede una quota deducibile del costo del lavoro pari al 120% (maggiorata fino al 130% per particolari categorie di lavoratori quali i fruitori di reddito di cittadinanza, le donne e i giovani).

I salari non crescono e la disoccupazione non scende

Nonostante gli incoraggianti numeri dell’Istat, a oggi l’Italia non riesce, però, a risalire dal fondo della classifica europea in termini percentuali sui livelli di occupazione, soprattutto giovanile. Tra i 20 Paesi dell’area euro, la Cgia ha dimostrato che siamo il fanalino di coda per il tasso di occupazione (61,5% contro una media europea del 70,1%) e ha registrato ancora livelli retributivi mediamente più bassi degli altri Paesi dell’Unione europea. Tra i fattori scatenanti, un alto tasso di “Not engaged in education, employment or training” (Neet), la scarsa occupazione femminile (52,8%) – caratterizzata anche da un accentuato divario retributivo di genere – e il grande gap con il Sud, dove meno del 50% della popolazione dichiara di avere un lavoro.

Un dato particolarmente interessante e che invita a una riflessione più profonda arriva ancora una volta dall’Istat: il numero dei lavoratori altamente specializzati e qualificati è aumentato nell’ultimo anno del 5,8%, pari al 96,5% dei nuovi posti di lavoro creati nel 2023. E le aziende continuano a cercare questa tipologia di lavoratori: il mismatch significativo tra le competenze offerte dal mercato e quelle richieste dalle aziende è ormai strutturale e, stando ai dati, chi le ha è presto ingaggiato, soprattutto con contratti a lungo termine, proprio per evitare di perdere capacità quasi introvabili.

Per risolvere questa questione, sempre più spesso, le imprese assumono personale dall’estero, approfittando anche l’entrata in vigore, pure in Italia, della nuova normativa che facilita l’ingresso dei lavoratori stranieri qualificati: il decreto, nell’adeguare l’ordinamento nazionale vigente a quello europeo, si propone di promuovere un regime più attraente ed efficace per l’ingresso di lavoratori altamente qualificati provenienti da Paesi terzi.

A margine di queste riflessioni, restano ancora irrisolte la depressione salariale e il cosiddetto ‘demansionamento’: spesso i lavoratori sono impiegati in mansioni che non sfruttano appieno le loro competenze o esperienze, e sono retribuiti in modo inferiore rispetto a quelle che potrebbero ottenere in posizioni analoghe in Paesi europei vicini. Questi aspetti non solo riducono il potenziale di guadagno dei lavoratori, ma conducono a una diminuzione della soddisfazione lavorativa, impattando negativamente sulla produttività. E questo è un indicatore che non possiamo permetterci di ignorare.

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Lucrezia Vardanega

Lucrezia Vardanega è giornalista pubblicista con esperienza nel mondo della comunicazione digitale. Ha iniziato il suo percorso giornalistico subito dopo la laurea, cominciando a collaborare con vari magazine online e addentrandosi sempre più nelle varie sfaccettature di questo mestiere sempre in divenire. Con uno sguardo attento e curioso sul mondo che la circonda, resta sempre con la mente aperta per rimanere aggiornata e accrescere le sue competenze. Per ESTE collabora su più fronti, sia online sia offline, con una particolare sensibilità verso i nuovi bisogni di un mercato del lavoro in equilibrio tra antiche tradizioni e moderne tecnologie. Nel tempo libero ama leggere, fare trekking sulle Dolomiti, visitare mostre d'arte e camminare a naso all'insù per la sua amata città d'origine, Venezia.

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