Così si cercava lavoro nell’era analogica

Quando mi capita l’opportunità di essere chiamato in causa per parlare di Employer branding, ripenso spesso a come ottenni il mio primo lavoro, o meglio, rifletto su come sarebbe rivivere quell’esperienza se avessi il potere di traslarla ai giorni nostri, annotando pazientemente differenze, comunanze e possibili epiloghi.

Appartengo infatti alla coda lunga della Generazione X e per compiere questa operazione devo tornare indietro di soli 20 anni, ma cruciali perché di passaggio da un’epoca all’altra, quando la penetrazione del digitale in Italia era ancora bassa, se paragonata ad altri Paesi dell’Unione europea o peggio ancora oltreoceano.

All’epoca non erano molti gli italiani connessi in Rete e le aziende di tutti i livelli investivano all’occorrenza cifre importanti per uno spazio nelle sezioni lavoro dei quotidiani, benché la quotidianità stessa non fosse una dimensione obbligatoria per la comunicazione rivolta ai jobseeker, laddove il fattore tempo, prima di Internet, era dilatato sino a potersi considerare accettabile anche una pianificazione sugli inserti settimanali, bisettimanali o mensili.

Ma come si rappresentavano i datori di lavoro all’interno di quegli spazi sulla carta, che giravano di mano in mano, di bar in bar, di parrucchiere in parrucchiere? Le aziende si ponevano il problema di attrarre il talento verso l’organizzazione o non ci erano ancora arrivate? Possibile che allora le aziende non sentissero quell’urgenza di piacere ai candidati potenziali che oggi è così importante per i dipartimenti HR?

Sicuramente tra chi mi legge c’è chi ricorda, immagino con nostalgia, l’acquisto in edicola del giornale locale, per consultare la sezione ‘Offerte di lavoro’. Facendo un ulteriore sforzo di memoria, non gli sarà possibile dimenticare che una grande parte dei box testuali, in cui erano divise le pagine, era appannaggio di non meglio precisate ‘primarie aziende’ e che la call to action più diffusa era quella che rimandava a una casella postale cui far riferimento per la spedizione del proprio cv.

Sì, con tanto di stampa, firma in originale, imbustamento, affrancatura e gita alla posta per imbucare tutte quelle che oggi chiameremmo application, associando questa parola automaticamente a gesti che oggi, nella maggior parte dei casi, si misurano in secondi.

Io me lo ricordo, infatti, il giovane Filippo alle prese con la sua prima operazione da aspirante professionista: scrivere un cv senza l’aiuto dei tutorial in Rete, senza il supporto dei dipartimenti di placement di scuole o università che sarebbero arrivati solo qualche anno dopo.Un vero arcano, quando da scrivere c’era proprio poco e non mi era ben chiaro se raccontare della mia passione per la pallacanestro, del volontariato o del tempo dedicato alla letteratura fosse opportuno o meno.

Dalla candidatura all’assunzione

Ecco, per rispondere alle domande che mi sono fatto su come sarebbe stato il mio ingresso nel mondo del lavoro 20 anni dopo, un primo indizio lo rilevo proprio nell’abbondante uso dell’anonimato nelle offerte, che a mio avviso molto diceva sul valore attribuito al concetto di attrazione del talento e di reputazione.

Va notato poi che, anche quando l’offerta fosse stata firmata, esprimeva una totale unidirezionalità del messaggio: dall’azienda all’aspirante lavoratore. Prima della frammentazione contrattuale, infatti, dell’avvento della mediazione offerta dalle società interinali, delle crisi che si sarebbero susseguite negli anni a venire, liquefacendo il rapporto tra datore di lavoro e lavoratori, tra diritti e doveri, tra parti sociali e contrattazione, l’offerta di lavoro in sé era uno statement monolitico e indiscutibile. Nei testi delle offerte dell’epoca, neppure l’ombra di un riferimento al candidato, se non per le solite formule manieristiche: erano ricercati quasi solo i ‘brillanti’ in generale, se non ricordo male.

Anche i tempi di relazione erano altro da oggi. Il mio primo feedback di ritorno fu infatti una chiamata molti giorni dopo, sul telefono di casa e la conseguente nota di mia madre sulla scrivania per dirmi che mi avevano cercato per un colloquio. Nome dell’azienda, indirizzo, giorno e ora, non c’era alcun bisogno che richiamassi per comunicare la mia disponibilità. Il colloquio era una cosa così importante da non essere negoziabile, per un debuttante. Ricordo che la sera a cena in famiglia si respirava un clima di ufficialità, di passaggio a un’altra fase della vita: era una cosa molto seria per tutti, benché nessuno al tavolo avesse la minima idea di chi mi stesse convocando e perché.

La primaria azienda, nel frattempo, aveva avuto un nome, ma né le Pagine Gialle, né la breve ricerca su Internet dalla biblioteca del paese avevano dato informazioni aggiuntive. Non stavo quindi andando incontro a un’azienda specifica, andavo invece incontro al lavoro con la ‘elle maiuscola’, dopo i vari lavoretti studenteschi, ragion per cui urgeva farsi un bel taglio di capelli e mandare in tintoria la giacca buona. L’unico oggetto d’indagine ero io.

Il primo degli step successivi si svolse poi in coda davanti all’ufficio del personale; io e altri ragazzi e ragazze tra cui riconoscevo parecchie facce. Quelli del paese, quelli del mio liceo, un paio di universitari pendolari come me, compagni del treno mattutino. Tutti vestiti a festa, con il nostro cv in mano, anche quel ragazzo che vedevo per la prima volta senza cresta, anfibi e giacca di pelle.

Degli step successivi invece ricordo meno, forse perché così placidamente spalmati nell’estate, salvo che feci in tempo a rompermi una caviglia giocando a pallacanestro e a sostenere un paio di colloqui altrove, sempre faticosamente con le stampelle, sempre senza che le diverse primarie aziende si preoccupassero di dirmi alcunché su di loro.

Poi, alla fine, la primaria azienda mi assunse. Scelse me. E io potei solo accettare. Primo task nel primo giorno di assunzione? Riordinare la pila dei cv di coloro che avevano fatto la mia stessa richiesta di impiego; questo lo ricordo bene e lo racconterò alle mie figlie che con tutta probabilità si faranno qualche risatina incredula da native digitali.

Come sarebbe stato oggi?

Se la mia esperienza si potesse spostare portando le lancette avanti di una ventina d’anni, quindi, come la potrei immaginare? La primaria azienda, che a dirla tutta poi si rivelò una piccola realtà locale, probabilmente l’avrei incontrata nella listing page di qualche applicazione del mio smartphone. Una job board, un social professionale, un formato pubblicitario ben targettizzato.

Realisticamente non avrei applicato subito, ma mi sarei fatto un giro sul Web, per sapere qualche cosa in più di chi mi stava comunicando un’opportunità, e avrei fatto le mie valutazioni avendo molte più risorse per riflettere e moltissimi insight non ufficiali, non dal datore, ma dai lavoratori in forze o passati.

In una recente indagine svolta da InfoJobs sulla nostra user base, abbiamo chiesto proprio ai candidati cosa li spinga a candidarsi a un’offerta di un’azienda piuttosto che di un’altra, e in un’era in cui l’informazione corre veloce e Internet gioca un ruolo fondamentale nello scambio di opinioni ed esperienze personali, non sarebbe potuto emergere altro che un plebiscitario 86% di rispondenti che conferma di cercare informazioni sulla reputazione dell’azienda prima di rispondere a un’offerta di lavoro. Una web reputation che per sette candidati su 10 si costruisce attraverso la ricerca libera sul Web, piuttosto che sui canali aziendali come il sito corporate.

Che dire poi di quei sei su 10 che hanno affermato di reputare i dipendenti la fonte più attendibile per venire a conoscenza di come si lavora davvero all’interno di un’azienda? Solamente due di loro si affiderebbero invece alla voce delle Risorse Umane o dei Top Manager. Un problema serio se immaginassimo di poter costruire la reputazione della nostra azienda solo con un approccio top-down.

Non essendo però un nativo della generazione che oggi ha la mia età dell’epoca, mi guardo bene dal mettere nel giusto ordine i valori di riferimento che avrebbero giocato oggi un ruolo nella scelta di fare un click e sottomettere la mia candidatura. Mi affido quindi a un recente outlook di Randstad che a livello internazionale evidenzia come sia il bilanciamento tra vita privata e professionale la prima chiave per attirare i Millennial in una campagna di Employer branding e il clima dell’ambiente di lavoro la via per fare breccia nel cuore della Generazione Z. Immaginando quindi di aver compiuto quel click alla luce delle mie nuove, diverse griglie valoriali, mi chiedo se le mie chance di accedere a un colloquio sarebbero state le stesse o se vivendo la stessa esperienza 20 anni dopo avrei incontrato maggiori ostacoli.

Il mio genuino, acerbo cv avrebbe superato i filtri semantici applicati ormai come standard dai tool digitali offerti dai portali e in seconda battuta dagli Applicant tracking system? Sarebbe piaciuto agli algoritmi efficienti di Intelligenza Artificiale che vanno diffondendosi, così come piacque a suo tempo a un’umana di nome Rosa?

Nutro qualche dubbio a riguardo, ma ho le idee certamente più chiare sul fatto che la competition che avrei affrontato passando i primi filtri, sarebbe stata più agguerrita. Gli aspiranti del giorno d’oggi competono contro una platea decisamente più ampia rispetto a quella che incontrai io in quella sala d’aspetto in cui ebbi la sensazione di conoscere un po’ tutti. Avrei realisticamente sostenuto un primo colloquio da remoto, in tempi più rapidi, un aspetto decisamente favorevole per la mia caviglia rotta di allora, ma sarei stato d’altro canto soggetto a un vaglio più attento delle mie affermazioni da parte dell’interlocutore, grazie alla maggiore e preventiva disponibilità digitale di test attitudinali, di lingua e alla possibilità di sapere qualche cosa in più su di me offerta dai miei profili social, cui avrei dovuto porre una certa attenzione.

Io e il ragazzo che non avevo mai visto senza cresta, anfibi e giacca di pelle, avremmo dovuto occuparci prima della nostra attività di Personal branding, pena di contrappasso che i lavoratori devono oggi pagare sul mercato del lavoro per l’aumentata disponibilità di informazioni accessibili a tutti grazie ai motori di ricerca e ai social.

L’articolo integrale è pubblicato sul numero di Luglio-Agosto 2020 di Persone&Conoscenze.
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Filippo Saini

Dal 2017 Filippo Saini è Head of Job di InfoJobs con la responsabilità della definizione della strategia e del posizionamento dell’azienda nel mercato del lavoro italiano. Laureato all’Università Bicocca di Milano, Saini è entrato in InfoJobs nel 2017 con l’incarico di sviluppare e guidare la rete vendita nazionale e locale, incoraggiando lo sviluppo del recruitment digitale in Italia. Precedentemente ha ricoperto diversi ruoli in ambito Sales&Operations in Subito, RBS-Retail banking services e Synergie Italia.


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