comunicazione_relazioni industriali-min

I nuovi media e la sfida delle relazioni pubbliche

Nonostante gli studi dedicati alle relazioni industriali dal punto di vista delle discipline della comunicazione costituiscano una minoranza rispetto alle riflessioni in materia dei giuristi e dei sociologi, alcuni saggi recentemente pubblicati hanno impostato un’analisi degli aspetti dei rapporti tra organizzazioni di rappresentanza nel mondo del lavoro. L’aspetto privilegiato è quello dell’impatto della diffusione dei social media sulle relazioni di lavoro e sull’azione dell’autonomia collettiva. In particolare è nutrita la letteratura relativa all’utilizzo dei social media da parte delle organizzazioni dei lavoratori. In Italia, una prima ‘mappatura delle questioni e delle diverse criticità’ è stata proposta dal docente di Diritto del Lavoro Marco Marazza e dai paper presentati e discussi nell’ambito delle giornate di studi intitolate “Le tecnologie integrate alle relazioni industriali. Rappresentanza, diritti sindacali e negoziazione collettiva”, poi pubblicati sulla rivista Labour & Law Issues (Marazza, 2009).

Se è vero che i social media costituiscono una tappa rilevante del processo di democratizzazione dell’informazione, che esalta i meccanismi dell’interazione e le possibilità dei singoli di dotarsi di personal media, si tratta pur sempre di una fase interna alla età della comunicazione digitale e che, in quanto tale, concorre a portare lo scenario verso la costituzione di quello che il ricercatore di comunicazione politica Andrew Chadwick ha chiamato hybrid media system. In questo senso è necessario chiarire che l’attenzione rivolta ai ‘media della Rete’ nell’ambito degli studi sociologici non si è limitata a osservare la fluidificazione dei canali di comunicazione interpersonale e intra-gruppo, ma ha riconosciuto la capacità dei mezzi digitali di esaltare il ruolo dell’opinione pubblica nei processi di decision making (Castell, 2009).

Va da sé dunque che trattare del rapporto tra relazioni industriali e nuove modalità della comunicazione implichi inquadrare la materia dal punto di vista più generale delle relazioni pubbliche, almeno laddove si considerino le relazioni industriali nella loro funzione politico-istituzionale, con riferimento cioè non solo alla contrattazione, ma anche al dialogo sociale, alla concertazione e al lobbying esercitati dalle organizzazioni di rappresentanza. Si tratta di funzioni oggi sempre più contraddistinte dalla difficoltà, o dall’inopportunità, di confinare il confronto negoziale all’interno delle aule istituzionali, che diventano sempre più spesso sedi di meri rituali di registrazione delle posizioni in campo, già note, diffuse e commentate attraverso i canali della comunicazione pubblica.

Comunicare per dimostrare la propria influenza

Nel contesto della comunicazione abilitata dai mezzi digitali si abbreviano i tempi e i costi per esercitare azioni di pressione con le quali si prefigura l’impatto (positivo o negativo) delle possibili decisioni (principio cardine del lobbying), il che coincide con il portare continuamente all’attenzione del decisore che si vuole influenzare una rappresentazione del consenso in gioco nell’opinione pubblica e nei pubblici particolari. Si vogliono cioè utilizzare le leve della comunicazione pubblica non solo e non tanto per difendere la propria reputazione dal punto di vista qualitativo (la coerenza rispetto ai valori fondativi o a quelli depositati nella propria mission) o quantitativo (il proprio potere comunicativo di per sé, in termini di capacità di auto-esposizione mediatica), bensì si comunica per dimostrare la propria capacità di raggiungere segmenti di pubblico coincidenti con quelli della controparte e di modificare il loro comportamento (di voto, di affiliazione, di consumo…).

E ciò, a ben vedere, succede spesso a prescindere dal fatto che tale possibilità si concretizzi, inducendo gli attori pubblici e istituzionali a muoversi in anticipo rispetto al momento della verifica, evitandola. Oppure, ancora, le ricadute sulla controparte si possono manifestare anche solo in conseguenza dell’annuncio di un’azione di protesta organizzata e programmata, senza che questa debba nemmeno essere posta in essere per produrre effetti. Fin qui poco di nuovo, si potrebbe dire, se non fosse che la piazza digitale intavolata dai personal media e dalle logiche asimmetriche dell’influenza, democratizza l’accesso alla produzione di informazioni con il duplice risultato di ampliare la lista dei soggetti che si intestano una capacità di rappresentanza attraverso la dimostrazione di una certa misura di potere comunicativo e quindi di frammentare la composizione dei pubblici e delle basi di riferimento. Dinamica, quest’ultima, divenuta particolarmente chiara durante l’emergenza sanitaria dovuta all’epidemia di Covid-19.

Ora, se è pur vero che questi cambiamenti riguardano tutti i tipi di rappresentanza, quella del lavoro è portatore di una peculiarità, almeno nel nostro Paese, in quanto l’autonomia collettiva non solo può ottenere risultati indiretti sui processi di produzione del dato normativo, bensì è titolata a produrre in prima istanza diritto, sia tramite la contrattazione collettiva sia attraverso le pratiche concertative. Da ultima quella che ha condotto alla firma del protocollo condiviso tra Governo e parti sociali sulla salute e sicurezza nei luoghi di lavoro durante i primi mesi della pandemia.

L’esposizione mediatica delle piccole imprese

Retrospettivamente, si può guardare a quella vicenda si è trattato di un frangente di convergenza seguito da mesi di continua ricerca del sostegno comunicativo da parte delle diverse agenzie di rappresentanza (aziendale, dei lavoratori, degli elettori), ognuna per suo conto. Ciò, insieme con i fenomeni della volatilità del consenso e della rottura dei tradizionali legami tra gruppi professionali e ideologie politiche, indica le difficoltà della rappresentanza di interpretare correttamente il sentire della propria base nel momento in cui si intende tradurle in azioni di pressione istituzionale o contrattuale.

In questo contesto il processo di cambiamento organizzativo volto a sviluppare e consolidare un modello di rappresentanza al passo con i tempi sta portando diverse associazioni di imprenditori e di lavoratori a un dibattito interno. L’obiettivo comune, almeno per quello che si può affermare dal punto di vista del bacino di progetti con i quali chi scrive è entrato in contatto negli ultimi due anni, è quello di salvaguardare e valorizzare le caratteristiche distintive dell’associazione esprimendole nelle attività di rappresentanza degli interessi.

Vi è cioè in alcune realtà la consapevolezza che, in un’epoca di disintermediazione e democratizzazione dell’informazione, la comunicazione non rappresenta solo un momento dell’impresa e del lavoro, ma costituisce parte integrante dell’ambiente nel quale l’azione di rappresentanza si esercita, coinvolgendo tutte le attività che innescano rapporti con gli stakeholder utili ad approfondire la conoscenza dei loro reali interessi. Ossia, oltre al già citato lobbying istituzionale, l’elaborazione di statistiche e analisi di mercato, il rapporto con gli enti bilaterali e la gestione delle loro attività, le relazioni sindacali in materia di lavoro, gli eventi istituzionali e politici, i rapporti tra attori del sistema della formazione, impresa e sindacato. Bisogna d’altronde tenere in considerazione che l’esposizione mediatica, non solo a livello locale, interessa oggi facilmente anche la piccola e media impresa, con dinamiche favorite dalla rapidità di innesco del circolo dell’informazione, come dimostra anche la cronaca.

A ogni modo, già episodi della vita industriale italiana di importanza nazionale hanno testimoniato quanto in situazioni critiche o di crisi sia ormai velleitario tentare la via di un rapporto diretto con il personale quando questo è già organizzato in forme di rappresentanza, peraltro favorite dalle tecnologie della comunicazione. Anzi, la sorpresa per la firma Italia di un Protocollo per la definizione di un sistema condiviso di relazioni industriali sottoscritto tra Amazon Logistica e le organizzazioni di rappresentanza dei trasporti e dei lavoratori atipici (FiltCgil, Fit-Cisl, Uiltrasporti, NidilCgil, Felsa-Cisl, Uiltemp e Conftrasporto) il 15 settembre 2021 ha mostrato come la ricerca di un dialogo con una rappresentanza possa essere una strategia perseguita anche in importanti e complesse realtà aziendali nelle quali il rapporto individuale con i lavoratori segue procedure già strutturate e consolidate.

Comunicare sostenibilità e qualità

La trasparenza fisiologica imposta dalla diffusione ormai capillare dei personal media non sollecita quindi le imprese solo sul profilo della comunicazione di crisi e della cosiddetta litigation pr. Le varie e diverse attività dovute alla natura comunicativa della rappresentanza contemplano oggi la comunicazione della sostenibilità del business, la narrazione della qualità della produzione, l’ascolto diretto dei bisogni e fabbisogni delle imprese e dei lavoratori, la comunicazione verso gli attori politici del territorio. La stessa logica che sul fronte della comunicazione esterna ha visto l’emergere della Corporate Social Responsibility (CSR) si riflette oggi nelle pratiche aziendali interne e in quelle esterne senza soluzione di continuità. Tanto che al concetto di CSR caratterizzato da un approccio compensativo alle esternalità negative prodotte dall’organizzazione, si è sostituito prima un più pervasivo concetto di Responsible Business Conduct (RBC), ossia di una condotta volta “all’integrazione di pratiche responsabili nelle operazioni interne” (Nieuwenkamp, 2016).

Il fatto che il paradigma della Just transition nelle sue più recenti evoluzioni sia ormai integrato dalla dimensione comunicativa della sostenibilità sociale è reso poi evidente dall’emersione sempre più prominente del concetto di ESG Capitalism, ossia di un capitalismo che per accedere a nuove forme di sviluppo ed espansione deve assumere dal suo interno la necessità di una governance (quindi di un processo partecipato) a più livelli: ambientale (environmental), sociale (social) e aziendale (corporate). Al crocevia di tutti questi campi di forza si creano gli spazi per nuove forme di rapporto tra imprese e lavoratori. Forme la cui rimodulazione ha avuto nuovo impulso con l’irrompere della crisi pandemica, che ha posto definitivamente al centro del dibattito internazionale il tema del rapporto tra ragioni dell’economia e dello sviluppo da un lato e della salute pubblica dall’altro. Pare essere questo il quadro nel quale di giocherà, ancora per molti anni, la capacità di interpretare in maniera efficace i cambiamenti delle formazioni sociali e dei loro bisogni. Per continuare a essere organizzazioni di effettiva rappresentanza.

L’articolo è pubblicato sul numero di Dicembre 2021 della rivista Sviluppo&Organizzazione.
Per informazioni sull’acquisto o sull’abbonamento alla rivista scrivi a daniela.bobbiese@este.it (tel. 02.91434400)

comunicazione, ESG, relazioni industriali, Corporate social responsability


Avatar

Francesco Nespoli

Assegnista di Ricerca presso l’Università di Modena e Reggio Emilia

Addio Smart working: che fine fa il lavoro agile?

Addio Smart working: che fine fa il lavoro agile?

/
Lo Smart working non è più un ‘diritto’ del lavoratore, ...
voce donne

8 marzo… e finalmente le donne hanno parlato

/
Una puntata dedicata alle principali questioni femminili. In occasione della ...

Via Cagliero, 23 - 20125 Milano
TEL: 02 91 43 44 00 - FAX: 02 91 43 44 24
EMAIL: redazione.pdm@este.it - P.I. 00729910158

© ESTE Srl - Via Cagliero, 23 - 20125 Milano