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Il Time management che aiuta a non essere schiavi delle piattaforme

L’emergenza sanitaria causata dal Covid-19 ha imposto il ripensamento delle modalità di lavoro di molte aziende. “Flessibilità” è diventata la parola d’ordine di questo scenario. In un articolo pubblicato sulla rivista Sviluppo&Organizzazione, Romano Cappellari, aveva approfondito il tema che nel nuovo scenario torna di grande attualità. Ne proponiamo un estratto liberamente ispirato al paper scientifico.

Quello della flessibilità del lavoro è uno dei temi maggiormente dibattuti negli ultimi anni; spesso, però, il confronto sembra restringersi a uno scontro tra le imprese – che chiedono a gran voce, in ogni occasione, una maggiore flessibilità come condizione indispensabile per la competitività e quindi la creazione di posti di lavoro – e i lavoratori preoccupati per il ‘costo umano della flessibilità’ e che temono di essere costretti a pagare. In questa prospettiva il dibattito sembra così riconducibile a una scelta pro o contro la flessibilità, a seconda che si vogliano far prevalere le ragioni delle imprese o le ragioni dei lavoratori.

In realtà, come ha osservato ironicamente da alcuni esperti, a furia di prendere posizione pro o contro la flessibilità senza riflettere su cosa sia esattamente, esiste il rischio concreto che chi vuole la flessibilità invochi una cosa, mentre chi non la vuole si opponga a un’altra. La flessibilità, intesa come possibilità di adattare in modo efficiente alle esigenze la domanda e l’offerta di lavoro, può invece rappresentare un obiettivo desiderabile tanto per le imprese quanto per i lavoratori e, come ha giustamente sottolineato il Libro bianco sul lavoro curato da Marco Biagi, la flessibilità “può migliorare la qualità oltre che la quantità dei posti di lavoro, rendendo più fluido l’incontro tra obiettivi e desideri delle imprese e dei lavoratori in tema di caratteristiche della prestazione lavorativa”.

Perché questo si verifichi è, tuttavia, necessario che si sviluppi una comprensione più approfondita del ruolo rivestito dalla flessibilità nelle funzioni di utilità di imprese e lavoratori. La tesi che si sostiene è che l’avvento della “era dell’informazione”, che ha rivoluzionato il ruolo del tempo nella società, ha reso inadeguata la visione del tempo di lavoro adottata ancora oggi dalla maggior parte delle imprese nella gestione delle risorse umane.

I nuovi schiavi delle piattaforme tecnologiche

L’invadenza del tempo di lavoro è un aspetto che è balzato agli onori della cronaca con la rivoluzione di internet, ma che era già stato messo in luce nell’analisi del rapporto con il lavoro dei knowledge worker analizzati da Kunda nella sua ricerca sulla cultura di un’azienda ad alta tecnologia.

La tendenza a cancellare la distinzione tra lavoro e non lavoro che caratterizzava i membri di più alto livello dell’azienda – e che era un tratto strettamente legato alla cultura organizzativa – era fonte di ansia e di tentativi di fissare dei limiti all’invadenza del coinvolgimento organizzativo. Il lavoro è coinvolgente, ma i membri dell’organizzazione sentono di dover combattere i propri impulsi di dedicare sempre più tempo all’azienda, pena l’inaridimento della vita sociale e familiare.

Le conseguenze sulla gestione del tempo di lavoro della rivoluzione delle tecnologie dell’informazione e della comunicazione possono andare in due direzioni opposte. Da un lato si verificherà per alcuni una diminuzione del costo del lavoro; le aziende saranno impegnate ad attrarre e trattenere le star con lavori stimolanti e potrà essere sfumata la separazione tra momenti di lavoro e momenti di distensione creativa, tra lavoro e ozio, visto che si sarà impegnati a fare un lavoro divertente e per giunta libero dalla fisicità del posto di lavoro.

Esiste però anche il rovescio della medaglia: il tempo di lavoro si espande e ‘cordoni ombelicali tecnologici’ e richieste del mercato incatenano le persone al lavoro in ogni momento della giornata e dell’anno. È una situazione esplorata da alcuni studiosi che hanno etichettato questa categoria di lavoratori come net slave. Anche in questo caso può cadere il muro di separazione tra lavoro e tempo libero con fluttuazioni di orario e chiamate improvvise che colonizzano il tempo di non lavoro, ma il risultato non è un abbassamento del costo del lavoro percepito dal lavoratore. 

Al di là delle situazioni limite in cui è richiesta la reperibilità, è poi sempre più frequente l’abitudine di svolgere a casa alcune delle mansioni tradizionalmente riservate all’orario di ufficio (come rispondere ai messaggi di posta elettronica prima di andare a letto). Il risultato dell’introduzione di internet e della possibilità di telelavorare sembrerebbe così in base ad alcune ricerche un incremento del lavoro svolto a casa in assenza di una diminuzione di quello svolto in ufficio. 

Il cambiamento più dirompente consiste però nel fatto che anche chi non lavora di più, spesso pensa molto di più al lavoro e, come è stato osservato da alcuni, “il tempo libero (…) non serve più a niente quando la tensione emotiva derivata dal lavoro lo penetra e lo invade come l’acqua nella stiva di una nave affondata”.

Non si pensi comunque che questo sia il risultato di novelli padroni delle ferriere, desiderosi di tornare a orari di lavoro da prima industrializzazione. Come hanno ben spiegato altri esperti, infatti, l’incremento delle ore lavorate è in buona parte dovuto all’incremento del costo-opportunità di dedicarsi ad altro, ed è il risultato di un sistema in cui gli stessi lavoratori come consumatori e investitori pretendono che si acceleri sempre di più e la disponibilità di informazione consente facilmente di trovare alternative migliori e cambiare fornitore.

Gestione del tempo e management delle risorse umane

Il problema dei cambiamenti in atto nel ruolo del tempo investe i sistemi di gestione delle risorse umane. Perché il nuovo sistema di regole sia efficace è infatti necessaria una gestione flessibile della flessibilità. L’articolazione concreta della prestazione lavorativa dovrà risultare dalla composizione delle esigenze aziendali con quelle del lavoratore. In molte aziende si riscontra, però, una discrasia tra la strategia perseguita nella gestione delle risorse umane in relazione all’orientamento strategico di fondo aziendale e il modello di gestione del tempo di lavoro effettivamente adottato.

In primo luogo permane in molte imprese che dichiarano di mettere l’accento sulla responsabilizzazione delle persone, sulla valorizzazione dei talenti e sull’importanza dei contributi che i dipendenti sono in grado di fornire per la soddisfazione dei clienti, quello che è stato definito un ‘orientamento al tempo’ o al controllo dei minuti, in contrapposizione con un reale orientamento ai risultati.

Detto in altri termini: non è possibile parlare di responsabilità e di obiettivi se in azienda è in vigore un regolamento orario che disciplina le pause per le esigenze fisiologiche dei lavoratori o – ed è questa la realtà di tante amministrazioni pubbliche – se figure alle quali si vorrebbero assegnate responsabilità manageriali timbrano il cartellino con un orario di sette ore e 12 minuti e negoziano la durata opportuna della pausa pranzo. Questo a maggior ragione in quei contesti, sempre più diffusi, in cui per l’azienda è importante acquistare non tanto il tempo passato alla scrivania o nello stabilimento, ma l’attenzione e la focalizzazione mentale sugli obiettivi dell’impresa. 

Un altro aspetto critico nei modelli di gestione del tempo oggi prevalenti è il significato simbolico assunto dal numero di ore di lavoro passate in azienda nella cultura aziendale. I rituali di gestione del tempo sono utilizzati come strumento di rafforzamento della cultura organizzativa per sottolineare l’importanza dell’impegno e della dedizione all’organizzazione. 

Lavorare sistematicamente un numero di ore superiore a quanto previsto contrattualmente segnala quindi la propria importanza e insostituibilità per l’azienda o, addirittura, come ha scritto ironicamente qualcuno acquista “il sapore di un sacrificio offerto spontaneamente alla propria azienda in segno di fedele integrazione e con la tacita speranza di ricavarne vantaggi di carriera”.

L’enfasi sull’importanza del numero di ore lavorate si traduce spesso nello stereotipo del lavoratore flessibile, o semplicemente a part time, visto come poco interessato alla carriera, demotivato e con un orizzonte di breve periodo. In questi contesti anche se esistono regole per favorire la conciliazione tra esigenze aziendali e personali, i lavoratori non le utilizzano per il timore, spesso fondato, di ricavarne svantaggi in termini di opportunità di carriera e di sviluppo professionale. È evidente che situazioni come questa finiscono per avviare un circolo vizioso che si avvita tra crescita di un senso di sfiducia tra le parti e controlli di tipo burocratico sull’orario di lavoro.

Naturalmente le pressioni del contesto competitivo e le esigenze sempre più pressanti della clientela non sempre (per non dire abbastanza raramente) consentono al lavoratore di determinare i propri orari disegnandoli in modo ottimale sulle proprie esigenze personali. La differenza tra un sistema di gestione degli orari orientato al tempo e uno orientato ai risultati è che in quest’ultimo è la percezione del lavoratore dei bisogni della clientela interna o esterna a rappresentare l’input della progettazione dell’orario di lavoro, mentre il superiore gerarchico si limita a un ruolo di coordinatore delle diverse esigenze o di consulente per aiutare a monitorare più efficacemente il mercato di riferimento.

La flessibilità dell’orario è effettivamente una leva in grado di compiere la quadratura del cerchio, rispondendo nello stesso tempo alle esigenze di competitività che le aziende devono affrontare nell’economia dell’informazione e ai bisogni sempre più articolati e differenziati dei lavoratori.

Questa flessibilità deve però basarsi su un insieme di regole contrattuali che bilancino in modo più efficace di quanto non avvenga oggi il trade off tra garanzie di base e spazio per l’autonomia individuale. La loro implementazione poi richiede un salto nella cultura prima ancora che negli strumenti per quelle imprese legate a un orientamento al controllo dei minuti e alla misurazione della fedeltà sulla base delle ore passate in azienda.

L’articolo è liberamente tratto dal paper di Romano dal titolo Il tempo di lavoro al tempo di Internet, pubblicato sul numero 191 di Sviluppo&Organizzazione.
Per informazioni sull’acquisto di copie e abbonamenti scrivi a daniela.bobbiese@este.it (tel. 02.91434400)

Smart working, gestione del tempo, piattaforme digitali, flessibilità

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