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Intesa-Ubi, le sfide delle fusioni bancarie

Intesa Sanpaolo ha lanciato un’inattesa offerta pubblica di scambio su Ubi Banca. Se l’accordo andasse in porto, si creerebbe una banca in grado di raggiungere un utile netto di oltre 6 miliardi di euro nel 2022. Ubi ha preso tempo e ha convocato il Cda per discutere l’offerta, che prevede per ogni 10 azioni di Ubi portate in adesione un corrispettivo di 17 azioni ordinarie di Intesa Sanpaolo di nuova emissione.

Se ci sarà un’adesione totale, gli attuali azionisti di Ubi Banca potranno detenere fino al 10% della società nata dalla combinazione. Ma quali sono gli scenari possibili quando si prospettano grandi fusioni e acquisizioni bancarie? A proposito di fusioni bancarie, Ettore Pietrabissa ne aveva parlato in un passato non sospetto su Sviluppo&Organizzazione: il prosieguo dell’articolo è stato liberamente tratto dal paper dal titolo Il valore delle fusioni bancarie vincenti, pubblicato nel 1999 sul numero 171 della rivista.

La letteratura ‘teorica’ esistente sul tema delle fusioni e delle acquisizioni bancarie è univoca nell’indicare i significativi vantaggi derivanti dalle operazioni di concentrazione. Sembrerebbe chiaro che al termine di un processo di M&A debbano emergere economie di scala, ottimizzazioni delle strutture tecnologiche, miglioramenti della redditività, capacità di offrire un più completo spettro di prodotti.

È fuor di dubbio che la prospettiva di migliorare redditività e posizione di mercato aziendali è una delle principali ragioni che spingono alla rapida crescita del numero di fusioni e acquisizioni. Tuttavia, la letteratura ‘pratica’, cioè l’evidenza empirica, non conforta queste aspettative. Anzitutto, solo in pochi casi il rendimento degli azionisti è significativamente migliorato.

Inoltre, uno studio condotto su circa 80 concentrazioni bancarie realizzatesi nei principali paesi europei (ABI, 1997) conclude che in un orizzonte temporale spinto fino a tre/quattro anni dopo l’operazione sia la redditìvità dell’attivo sia i tassi di profitto non mostrano segni di miglioramento; il rapporto costi-ricavi non evolve in modo positivo; la struttura finanziaria denota una stagnazione sia del livello di capitalizzazione sia dei profili di liquidità.

Lo studio, pertanto, sembra confermare i dubbi sulla capacità delle operazioni di concentrazione di creare valore attraverso il miglioramento dei fondamentali di bilancio. Le aspettative di evoluzione positiva che, nelle dichiarazioni ufficiali pre fusione/acquisizione, sembrano trainare gli accordi, paiono sistematicamente non verificate nella realtà.

In definitiva, in molti casi le concentrazioni non hanno dimostrato, di fatto, di saper essere un ‘motore’ per la creazione del valore.

I principi di base per una concentrazione di successo

Per migliorare i risultati delle operazioni di M&A, sono stati messi a punto, negli anni più recenti, alcuni approcci metodologici implementativi, che fanno riferimento alle tre fasi che compongono ogni processo di concentrazione: definire la strategia, chiarire lo scopo perseguito con la fusione-acquisizione (identificare, cioè, come creare valore e come evitare di distruggere valore); disegnare un metodo di approccio all’integrazione; procedere con il processo attuativo di integrazione.

Ognuna delle fasi è cruciale per la riuscita dell’operazione. In questo lavoro verrà posta particolare attenzione sulla terza fase, quella dell’implementazione (“post-merger integration”); tuttavia è necessario tenere presente che il processo di integrazione – già di per sé difficile e rischioso – può avere successo se e solo se le due fasi precedenti sono state condotte in modo coerente ed efficace.

In particolare, va osservato che molte operazioni di M&A trovano le radici dell’insuccesso fin dalla prima fase, quella delle decisioni strategiche. È ovvio che un’integrazione può portare a risultati significativi solo se le radici logiche ed economiche dell’operazione sono salde e profonde: e tuttavia, non di rado proprio nel processo iniziale di decisione si osservano le maggiori incertezze e incoerenze.

Non poche importanti operazioni sono state intraprese – e con quali conseguenze è facile immaginare – sulla base di due tendenze che negli Usa sono state battezzate “ego trip” e “me too principle. La migliore descrizione dell’ego trip è stata fornita da Michael Porter, secondo il quale va riconosciuto che esiste indubbiamente un fortissimo richiamo verso le fusioni e le acquisizioni: sono il “gioco importante”, consentono l’impresa eroica.

Con un tratto di penna, il “grande manager” può aumentare le dimensioni dell’azienda in modo impressionante, può trovare un posto sulle prime pagine dei giornali, può creare attese ed eccitazione sui mercati. Non sempre è facile resistere a queste tentazioni, ed è possibile farsi trascinare in operazioni di drammatica difficoltà da desideri di grandezza molto pericolosi.

Il me too principle fa leva sul timore di restare esclusi dal grande gioco, sull’ansia di dover dimostrare le capacità di decisione apparentemente richieste dal mercato. Se i giornali riportano tante descrizioni di fusioni, se tante banche preannunciano acquisizioni importanti, se il settore bancario nel suo complesso sta muovendosi così profondamente e velocemente, possibile che solo la mia banca resti al palo? È chiaro che decisioni prese sotto una spinta del genere possono frequentemente essere carenti sotto il profilo strategico.

I pericoli di non adottare una strategia sin dall’inizio

Anche al di là di queste due motivazioni, che possono essere definite patologiche, va comunque riconosciuto che la decisione di intraprendere fusioni o acquisizioni segue spesso alcuni luoghi comuni pericolosi che non sempre hanno una vera ragione di essere.

Tra quelli più frequenti (e più frequentemente ammessi dalle parti in causa) ricorrono la ricerca di una superiore massa critica, vista come essenziale fattore di prosperità; il desiderio di ampliare rapidamente la rete di vendita, identificando le probabilità di successo con un crescente presidio del territorio; la tendenza ad ampliare sempre di più la gamma dei prodotti e servizi, vista come la garanzia di poter meglio trattenere i clienti; la pulsione verso una rapida crescita dimensionale, anche a scopo difensivo contro eventuali tentativi di acquisizione da parte di terzi (in particolare i demonizzati “stranieri”).

Dietro queste motivazioni si intravede, in realtà, una ricerca affannosa per trovare una soluzione immediata ai problemi di gestione veri o presunti, attuali o potenziali che tormentano il sistema bancario, ma – quel che più conta – al di fuori da una chiara e completa strategia di sviluppo per la banca.

Di fatto, va compreso che un’operazione di concentrazione in sé non è né un bene né un male: non va quindi ricercata come una moderna panacea a tutti i problemi gestionali. Una fusione o un’acquisizione, cioè, non possono mai essere fini a se stesse, ma devono sempre essere parte logica e coerente di un più vasto e coordinato piano di sviluppo, di cui sono uno dei mezzi di attuazione.

Quindi, il vero grande passo che un’azienda bancaria deve compiere prima di ogni altro è la formulazione di una strategia, cioè di una visione di crescita e focalizzazione di medio-lungo periodo che serva a identificare il ruolo che potrà essere svolto sul mercato.

In alcuni casi – e solo in alcuni – la visione prospettica aziendale potrà richiedere l’avvio di operazioni così importanti e complesse come una fusione o un’acquisizione. E in questi casi, in cui l’iniziativa scaturisce da una vera e comprovata visione d’insieme, si darà al via a operazioni straordinarie che sono estremamente mirate e con caratteristiche solidamente allineate con la visione complessiva dello sviluppo dell’azienda: quindi, potenzialmente, di successo.

In definitiva, una visione aziendale globale e una focalizzazione sul proprio core business sono le lenti attraverso le quali valutare la reale opportunità e convenienza economica di eventuali operazioni di fusione e di acquisizione.

Solo da una visione strategica coerente e consapevole può derivare, infatti, una decisione capace di portare a intraprendere operazioni che incrementino il valore complessivo dell’azienda e la cui realizzazione possa partire da subito a pieni giri.

* Ettore Pietrabissa è stato Direttore Generale dell’Associazione Bancaria Italiana e ha ricoperto incarichi presso l’IRI e in banche italiane ed estere, occupandosi fra l’altro di pianificazione strategica, analisi econometriche, sistemi organizzativi, attività internazionali; è stato membro del Comitato EMU a Bruxelles e del Comitato Nazionale per l’Euro costituito dal Governo Prodi.

 

L’articolo è liberamente tratto dal paper di Ettore Pietrabissa dal titolo Il valore delle fusioni bancarie vincenti, pubblicato sul numero 171 di Sviluppo&Organizzazione. Per informazioni sull’acquisto di copie e abbonamenti scrivi a daniela.bobbiese@este.it (tel. 02.91434400)

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