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La faccia (sconosciuta) della Cina nel racconto di un manager italiano

L’emergenza in Cina, dopo mesi di lockdown, sembrava finita. Eppure è recente la notizia del pericolo di un ritorno del contagio, nonostante Wuhan abbia riaperto dopo addirittura 76 giorni di quarantena. Dall’Italia, che ha introdotto a distanza di un paio di mesi rispetto al Paese del Dragone le misure anti-coronavirus, imponendo l’isolamento forzato per ridurre la pandemia, si guarda perciò con particolare interesse a quanto sta avvenendo in Cina.

Del resto, quelli tra Italia e Cina sono rapporti stretti che non si legano solo alla tragedia della diffusione del Covid-19, ma che hanno matrici storiche e culturali profonde. Di questo stretto legame ne lascia trasparire appieno la forza l’ultimo libro di Luca Frediani, Bianco fuori giallo dentro.

Si tratta del racconto del profondo legame che unisce l’autore con la Cina, che già dal sottotitolo – Cronache di una vita trasformata dai viaggi in Cina – rende evidente quanto forte sia l’influsso che ha esercitato la cultura cinese su di lui. Forte al punto da spingerlo a impararne da autodidatta la  lingua, solitamente così ostica per un occidentale.

Non appena ci si immerge nella lettura, però, si comprende come, in fondo, anche tutti noi siamo molto legati alla Cina, profondamente attaccata alle tradizioni, ma sempre pronta a guardare al futuro, soprattutto per quanto riguarda l’espansione economica.

Senza scomodare Marco Polo, la Cina è infatti una cultura con cui l’Occidente, e l’Italia in primis, è storicamente in contatto e che, soprattutto nel mondo globalizzato di oggi, rappresenta un interlocutore fondamentale a livello economico.

Alla scoperta della cultura cinese con gli occhi di un manager

Bianco fuori giallo dentro si rivela una lettura importante per ricordarci questo nesso. E lo fa dalla prospettiva privilegiata di un Operation manager che da più di 10 anni lavora nell’export con la Cina. Frediani da Pechino a Xiamen passando per fabbriche e campagne ci restituisce tutte le sfumature della società cinese – dal cibo di strada al rituale del tè, dalle credenze popolari ai karaoke affollati dalle ragazze, fino alla descrizione dello stile di vita nelle città e nelle campagne – offrendoci la testimonianza del loro tipico approccio alla vita. Con i pro e i contro del caso, beninteso.

Significativo, in quanto fornisce un immediato raffronto con la cultura del lavoro, è il racconto della visita di Frediani a una enorme azienda nelle campagne cinesi, dove gli operai non rispettano le norme di sicurezza: uomini e donne trasportano senza protezioni grandi lastre di metalli, girano in ciabatte e fumano sul lavoro.

La descrizione della scena finale in fabbrica, che riportiamo nella descrizione dello scrittore, ci mostra i comportamenti abituali dei lavoratori cinesi: “Il muletto non arriva a prendere un blocco in alto, l’operaio sale in piedi sulla forca e si fa portare fino in cima per utilizzare le funi della gru. Non ci arriva. Un suo collega gli passa una scala che viene posta sulla forca del muletto e così l’operaio può salire. Siccome le sue infradito scivolano, decide che è molto più sicuro andarci a piedi nudi. Lega la fune intorno al blocco e scende”. Alla fine, chiosa Frediani, “non è vero che i cinesi non muoiono mai, è solo che hanno una fortuna incredibile”.

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