La lezione manageriale delle situazioni organizzative estreme

Chi si interroga, con sconcerto, sul fallimento dell’intelligence americana nel monitorare la situazione in Afghanistan non può non riandare con la memoria ai passi falsi dei servizi di sicurezza in relazione agli eventi connessi all’11 settembre 2001, oggetto anch’essi di narrazioni ben documentate come il libro di Lawrence Wright The Looming Tower, ripreso dalla serie Amazon Prime con lo stesso titolo.

Ma nella letteratura sono numerose le narrazioni sui servizi segreti. Una delle ultime in ordine di apparizione è il romanzo Figli della furia di Chris Kraus, scrittore e regista cinematografico tedesco, edito in Italia da Sem (2021), che segue le vicende di due fratelli dalla Riga di inizio Novecento alla Monaco degli Anni 70. La storia di Koja e Hub Solm, oltre che della loro sorella adottiva Ev, racconta la vita affettiva dei protagonisti sullo sfondo dei misfatti e delle tragedie che hanno accompagnato il nazismo e la Seconda Guerra mondiale, ma illumina anche i percorsi tortuosi e oscuri delle organizzazioni di intelligence (i servizi segreti) delle principali potenze mondiali durante e dopo i tempi di guerra.

I personaggi principali sono frutto della fantasia dell’autore, ma i fatti descritti nelle 900 pagine del racconto si basano esclusivamente su eventi storici documentati, in gran parte sconosciuti, spesso incredibili, in cui Kraus si è imbattuto in 10 anni di ricerche, spinto dalla volontà di ricostruire vicende che hanno coinvolto un suo familiare.

Koja, il minore dei due, è la voce narrante; parla nel 1975 da un ospedale di Monaco, rivolgendosi a un altro ricoverato molto più giovane, un hippie ingenuo e pacifista. È una sorta di confessione attraverso la quale riconosce i crimini efferati di cui è stato testimone e spesso autore diretto, ma al tempo stesso ne giustifica il senso in base a una visione cinica e di realismo spietato, ma anche sincera nel rivelare i propri sentimenti, che palesa nell’intento di demolire il candore inconsapevole del proprio interlocutore.

In un’intervista al quotidiano Il manifesto, lo scrittore ha chiarito la genesi del romanzo e il significato che ha voluto attribuirgli. A un certo punto della sua vita, si è imbattuto nei trascorsi di suo nonno, che aveva operato nei servizi segreti di Hitler e dopo la guerra aveva lavorato per le analoghe organizzazioni occidentali, acquisendo in Germania uno status di piena rispettabilità sociale. Attraverso la figura di Koja, ha così voluto uscire dallo stereotipo del criminale nazista presentato come un alieno, un assassino privo di sentimenti e psicopatico, secondo uno schema che non aiuta a comprendere i processi reali del coinvolgimento in azioni perverse di persone ‘normali’, come illustra il concetto di “banalità del male” a suo tempo espresso dalla filosofa Hannah Arendt.

Superare le ideologizzazioni del management

Un aspetto centrale del romanzo, di interesse anche per gli studi di organizzazione, riguarda l’attraversamento da parte dei due fratelli, e di Koja in particolare, di una vasta gamma di agenzie di intelligence (ma possiamo dire tranquillamente di “spionaggio”) di diversi Stati nel corso di 50 anni. Può apparire esagerato che Koja racconti di aver operato per i servizi di Hitler, del Kgb (la principale agenzia di sicurezza dell’Unione Sovietica), del Bnd di Konrad Adenauer (l’intelligence della Repubblica Federale Tedesca) e del Mossad (i servizi segreti israeliani) in sequenza, ma anche in contemporanea. Lo è certamente, ma trova riscontro in eventi storici accertati, come il fatto che Reinhard Gehlen (il Dr. Schneider del romanzo), un Generale che riferiva direttamente a Hitler, sia divenuto nel Dopoguerra il capo dei servizi segreti della Germania Federale, o che il ruolo di funzionario di vertice in questi stessi servizi, riorganizzati sotto l’egida della Cia (agenzia di spionaggio degli Stati Uniti), sia stato rivestito da Heinz Felfe, un personaggio con un passato da SS e che si scoprì all’inizio degli Anni 60 essere stato per lungo tempo una spia del Cremlino.

Sabina Siebert, Professor of Management all’Università di Glasgow, e Barbara Czarniawska, Senior Professor of Management Studies al Gothenburg Researc Institute, in un articolo dal titolo “Distrust: not only in secret service organizations”, pubblicato sul Journal of Management Inquiry nel 2020, osservano che lo studio del funzionamento delle organizzazioni di servizi segreti può rivelarsi importante anche per comprendere le organizzazioni ordinarie. Quanto meno, perché è normale che le organizzazioni civili mutuino tecnologie sperimentate originariamente nel settore militare e i servizi segreti sono sempre alla ricerca delle applicazioni tecnologiche più avanzate.

L’esame di situazioni organizzative estreme, dove la sfiducia è una risorsa che è necessario coltivare sistematicamente, può aiutare a cogliere i limiti di quelle ideologizzazioni del management imperniate sul concetto di fiducia e suggerire quindi di orientare l’attenzione più realisticamente verso quel mix di fiducia e sfiducia che si ritrova alla fine in ogni organizzazione, segreta o no, e che nel contesto dominato dalle tecnologie dell’informazione diventa ancora più attuale se si pensa a fenomeni come gli hacker e la rilevanza oggi assunta dalla cybersecurity, ma anche della sicurezza senza ulteriori qualificazioni.

L’articolo integrale è pubblicato sul numero di Luglio-Agosto-Settembre 2021 della rivista Sviluppo&Organizzazione.
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organizzazioni, servizi segreti, intelligence


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Gianfranco Rebora

Gianfranco Rebora è Direttore di Sviluppo&Organizzazione, la rivista edita dalla casa editrice ESTE e dedicata all'organizzazione aziendale. Rebora è Professore Emerito di Organizzazione e gestione delle risorse umane dell’Università Carlo Cattaneo – Liuc di Castellanza.

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