Lavorare meno per produrre di più

Da un lato il vantaggio di conciliare meglio i tempi della vita privata e di quella professionale, aumentando il benessere e quindi la produttività dei dipendenti. Dall’altro il timore di accumulare lo stesso quantitativo di lavoro in un tempo più breve, rendendo le giornate in ufficio più intense e stressanti.

Il dibattito sulla rimodulazione dell’orario lavorativo – settimane brevi oppure orario giornaliero ridotto – è in corso. Anche in Italia, con l’ultima proposta avanzata dalla Cgil del “quattro giorni per otto ore a scorrimento”. Ma se nel nostro Paese siamo ancora solo alla fase della discussione, altrove nel mondo la possibilità di lavorare meno è già realtà.

La questione è tornata alla ribalta dopo il rimbalzo della polemica in arrivo dalla Finlandia. In realtà la proposta della neopremier socialdemocratica Sanna Marin risale ad agosto 2019, quando era Ministra dei Trasporti (l’Esecutivo di Helsinki si è affrettato a precisare di recente che l’idea non fa parte del programma di Governo attuale).

Tuttavia, il tema resta. Marin aveva ipotizzato la settimana lavorativa di quattro giorni e di una giornata di lavoro da sei ore. Il tutto a parità di stipendio. La proposta era stata motivata con il fatto che le persone “meritano di trascorrere più tempo con le famiglie, con i propri cari e in altre attività”. L’attuale premier aveva concluso che una riduzione delle ore lavorate “potrebbe essere il prossimo passo nella nostra vita lavorativa”. Al momento, però, la vicenda – come detto – s’è arenata.

Il tragitto casa-ufficio è lavoro

Sullo stesso punto, anche se con un approccio diverso, è intervenuta recentemente la Svizzera. Il Paese ha stabilito che, con l’inizio del 2020, per i dipendenti pubblici federali che lo richiederanno, il tragitto casa-ufficio potrà essere conteggiato nel calcolo della giornata lavorativa e quindi pagato come ore di lavoro.

La possibilità viene offerta a quanti, nel tempo trascorso ogni giorno in treno, bus o metropolitana per raggiungere l’ufficio, sono di fatto operativi, rispondendo al telefono, inviando e ricevendo email e predisponendo le attività della giornata.

Per ottenere tale riconoscimento è comunque necessaria l’autorizzazione dei responsabili, e si procederà esaminando caso per caso. “Una maggiore flessibilità nella forma del lavoro è un’esigenza dei nostri giorni”, ha commentato Anand Jagtap, Responsabile delle Risorse Umane degli uffici pubblici elvetici.

Le 28 ore dei metalmeccanici tedeschi

In Germania, un accordo storico sulle ore di lavoro è stato raggiunto a febbraio 2018 tra il sindacato metalmeccanico Ig Metall e il Land del Baden-Wuerttenberg: settimana lavorativa a 28 ore su base volontaria, inizialmente per i 900mila addetti del comparto presenti nel Land e poi da estendere ai 3,9 milioni di iscritti a Ig Metall nel resto del Paese.

Dopo la mobilitazione di quasi 1 milione di lavoratori, la sigla tedesca è arrivata a un compromesso che permettesse agli operai che lo necessitano di avere più tempo libero per dedicarsi all’assistenza di famigliari o minori.

Ma non si tratta di una misura a senso unico: ciascun dipendente può chiedere la riduzione dell’orario lavorativo a 28 ore settimanali, per un periodo di tempo che vada da un minimo di sei mesi a un massimo di 24, dopo il quale tornerà alla settimana standard da 35 ore. Ma chi lo desidera può anche chiedere al contrario un’estensione delle proprie ore lavorative fino a 40 alla settimana, sempre su base volontaria.

La settimana breve è invece strutturale nei Paesi Bassi: quattro giorni di lavoro per un totale di 29 ore settimanali da trascorrere in ufficio. Un dato che, combinato con un reddito medio annuale da 35mila euro, rende l’Olanda uno dei Paesi più appetibili dal punto di vista professionale. Ma anche altrove nel Nord Europa gli orari di lavoro risultano ridotti, se non altro rispetto a quelli italiani: la Norvegia prevede 33 ore lavorative a settimana (con 21 giorni di ferie pagate e 43 settimane di congedo parentale) e idem la Danimarca.

In Giappone l’esperimento di Microsoft

Spostandosi a Est, e proprio in un Paese noto per gli eccessi di lavoro e per la cultura degli straordinari, ad agosto 2019 Microsoft ha coinvolto i dipendenti dei propri uffici in Giappone in un esperimento che prevedeva una settimana da quattro giorni lavorativi anziché cinque. Obiettivo: concentrare il lavoro in periodi più brevi e dedicare più tempo al riposo, in modo da apprendere meglio e aumentare produttività e creatività.

In concreto, ai lavoratori sono stati concessi cinque venerdì liberi consecutivi pagati. Risultato: le vendite per impiegato sono cresciute del 40% rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente, i consumi interni sono calati (-59% di pagine stampate, -23% di energia elettrica utilizzata) e la quasi totalità dei lavoratori interessati (94%) si è detta soddisfatta del test, che Microsoft si è detta interessata a ripetere nei mesi invernali.

La proposta a scorrimento della Cgil

In Italia, fatta eccezione per esperimenti spot condotti da singole aziende o misure messe in campo per superare i periodi di crisi, la settimana corta è ancora utopia. L’ultima proposta per tentare di trasformarla in realtà, come ha raccontato recentemente il quotidiano La Stampa, è arrivata da Agostino Megale, Segretario Generale della Fisac Cgil Cgil.

L’idea è riassumibile con la formula “4 x 8 a scorrimento”, cioè quattro giorni lavorativi non fissi a settimana da otto ore al giorno ciascuno, a salario invariato. La dicitura “a scorrimento” sta a indicare che si lavorerebbe a turno anche nei fine settimana, in modo da portare al 100% il tempo di utilizzo degli impianti.

Un sistema che, secondo Megale, porterebbe nuove assunzioni e che si autofinanzierebbe con l’aumento in termini di produttività dovuto al maggiore utilizzo degli impianti e dalla minore usura dei lavoratori (meno malattie e meno assenteismo) e in parte fiscalizzando gli oneri contributivi dei giovani da assumere per coprire i vuoti. Il dibattito è aperto.

Di conciliazione vita-lavoro se ne parla da tempo, ma gli studi evidenziano che c’è ancora una limitata conoscenza delle modalità con cui le aziende possono favorire questa pratica. A riguardo, proponiamo un articolo liberamente tratto da una ricerca pubblicata sulla rivista Sviluppo&Organizzazione

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Manuela Gatti

Classe 1993, nata e cresciuta nella provincia milanese, è laureata in Lettere presso l’Università Statale di Milano. A qualche anno di cronaca locale è seguito un biennio alla Scuola di Giornalismo Walter Tobagi di Milano, dove ha svolto il praticantato giornalistico. Giornalista professionista dal 2019, attualmente lavora come freelance a Milano, collaborando con quotidiani, siti e periodici nazionali.

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