Lo chiamate Smart working, ma è telelavoro

Alcuni esempi concreti valgono più di sofisticate indagini a campione. Nella segreteria del mio dipartimento all’Università di Firenze, il personale amministrativo si comporta in questo modo: un giorno il singolo dipendente si reca in dipartimento dove passa le sei ore di lavoro a fare migliaia di fotocopie che stiva nelle ampie borse della spesa che ha avuto cura di portare con sé; queste fotocopie vengono portate a casa dove l’operatore passa i giorni seguenti al computer a lavorare sui documenti fotocopiati; i risultati di queste lavorazioni vanno poi inviati via mail al direttore del dipartimento affinché li stampi e vi apponga la sua firma autografa e li lasci sul tavolo, cosicché il responsabile amministrativo li possa opportunamente archiviare.

La stessa cosa si verifica un po’ in tutte le amministrazioni pubbliche con l’eccezione dell’Inps e, in gran parte, dell’Inail (eccezioni su cui ritorneremo tra poco). L’insegnamento che se ne deve trarre è ovvio: per poter realizzare il telelavoro è indispensabile che i dati e la documentazione tutta sia già registrata su supporto informatico.

Avere tutti i dati registrati su supporto informatico non è comunque sufficiente. È poi indispensabile che questi dati siano raggiungibili. Nel Valdarno, ma anche in molte valli dell’Appennino, in molte zone della Calabria e delle Alpi, la Rete non regge comunicazioni via web. Quindi alla disponibilità del dato su supporto informatico va aggiunto il requisito di rendere questo dato raggiungibile e manipolabile da remoto. Qui il bisogno sarebbe di facile soddisfazione: basterebbe estendere la banda larga a tutto il territorio nazionale. La disponibilità della banda larga non basta. Bisogna anche prendere le misure tecniche e giuridiche necessarie a garantire la cybersecurity.

Il rispetto degli orari non garantisce l’efficienza lavorativa

La difficoltà più grande per poter mettere in opera veramente il telelavoro è rappresentata, però, dalle modalità di controllo del dipendente. Nella nostra cultura del lavoro (imperante sia nell’impresa privata che nell’ente pubblico) è dominante il metodo del ‘controllo a vista’. Il dirigente pubblico e il datore di lavoro privato si sentono sicuri della produttività del dipendente fintanto che il dipendente è controllabile a vista. Basti pensare ai famosi tornelli del Ministro Brunetta che, per incrementare la produttività, ha messo all’entrata degli uffici pubblici dei tornelli superabili (in entrata e, soprattutto, in uscita) solo strisciando il badge, in modo da poter controllare chi è realmente presente sul posto di lavoro.

Ovviamente il meccanismo del controllo della presenza non garantisce che chi è presente lavori e lavori bene. Nel settore privato la situazione non è molto diversa. Tutti sanno che dare l’impressione di darsi da fare (spostandosi con aria preoccupata nei corridoi con in mano molti fogli o fare molte fotocopie) è molto più importante del produrre risultati. Il fatto che l’economia italiana sia composta in grande misura da micro aziende è dovuto in buona parte al fatto che il piccolo imprenditore non sa tenere sotto controllo i grandi numeri.

Nel settore pubblico l’attivazione forzata di modalità di lavoro da remoto ha evidenziato subito questo nervo scoperto. In molte amministrazioni (che qui non cito) la giornata lavorativa deve iniziare con una relazione sulle cose da fare e si deve chiudere con una relazione sulle cose realizzate. In amministrazioni più ligie questa prassi viene ripetuta ogni mezza giornata di lavoro. In effetti dal 15% al 30% del tempo-lavoro viene perso in attività burocratiche che ha poco a che vedere con il controllo della performance ma si identifica con la filosofia dell’adempimento burocratico.

Controlli, performance e processi

Il lavoro in modalità remota richiede che il controllo sia basato non sulla presenza ma sui risultati, sulla produttività del singolo operatore. La cosa non dovrebbe cogliere impreparata la Pubblica amministrazione dopo la mole di provvedimenti legislativi dedicati (a partire dall’art. 20 del D.lgs. 29/1993 sino al D.lgs. 78/2018, passando per il D.lgs. 150/2009, noto come decreto Brunetta) alla produttività e al suo miglioramento.

Se c’è un effetto positivo che questi improvvisati e sgangherati tentativi di realizzare il telelavoro nella Pubblica amministrazione avrebbero dovuto produrre è quello di mettere in evidenza che gli innumerevoli provvedimenti legislativi dedicati alla produttività non hanno sortito alcun effetto significativo, visto che non è possibile far riferimento a queste norme per tener sotto controllo la produttività del personale che lavora in modalità remota. Nessuno sembra, peraltro, essersi accorto di questa stranezza. Il fatto è che i meccanismi di gestione della produttività vengono percepiti non come strumenti per tenere sotto controllo i risultati, ma come tanti adempimenti di tipo burocratico.

Per poter tener sotto controllo la performance della macchina organizzativa (e, quindi, delle risorse umane che popolano questa macchina) è indispensabile che il lavoro sia organizzato per processi, in modo che sia possibile controllare per ogni fase del processo se e quando è stata realizzata e da chi. Questo implica che il lavoro sia programmato in anticipo. In una organizzazione in cui il lavoro è programmato in anticipo i dirigenti non si occupano delle singole pratiche, ma di progettarne il percorso.

Nella nostra Pubblica amministrazione il dirigente non è chiamato a programmare il percorso delle pratiche, ma le controlla e le firma singolarmente. Per l’art. 17 del D.lgs. 165/2001, il testo unico sul pubblico impiego, gli atti a valenza esterna devono essere firmati dal dirigente. Questa norma si accoppia in maniera deleteria con l’art. 5, comma 1, della Legge 241/1990. Tale norma separa il responsabile di procedimento dal responsabile di provvedimento.

Non solo non è proceduralizzato, il lavoro nella nostra amministrazione è strutturato in maniera di tipo feudale: chi fa il lavoro non firma il lavoro svolto; chi firma non ha fatto il lavoro che firma. Il responsabile di procedimento è inquadrato in un profilo la cui denominazione è emblematica: “istruttore amministrativo”. Chi istruisce la pratica non la firma. Chi la firma non la ha istruita.

Questo modello, intrinseco nel nostro diritto amministrativo, determina, oltre una organizzazione del lavoro frammentata e non traducibile in processi digitalizzabili, un clima di tensione tra i vertici (dirigenti responsabili di provvedimento che firmano l’atto) e quadri intermedi (funzionari responsabili di procedimento). I benefici incentivanti della produttività, di natura economica, vanno esclusivamente a chi firma l’atto, non a chi lo ha materialmente concepito e realizzato (D.lgs. 150/2009, D.lgs. 78/2018). Meccanismo più diabolico per creare conflitto non poteva essere concepito! Altro che produttività; altro che gestione per obiettivi; altro che organizzazione per processi.

L’articolo è stato pubblicato sul numero di Marzo 2021 sulla rivista Persone&Conoscenze.
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Massimo Balducci

Massimo Balducci ha diviso la sua attività tra ricerca accademica, formazione e consulenza di organizzazioni pubbliche e private. Già Full Professor di Organization Theory allo European Institute of Public Administration di Maastricht e Docente di Auditing e Controlling al “Cesare Alfieri” di Firenze, Docente stabile di European Public Management alla Scuola Nazionale di Amministrazione (Sna) di Roma. È stato Vicepresidente dello European Network of Training Organizations for Regional and Local authorities (Ento). Collabora con il Consiglio d’Europa, lo United Nations Development Program e la Banca mondiale a vari programmi di assistenza a Pubbliche amministrazioni.


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