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Paternità e occupazione: c’è ancora molto da fare

La recente decisione del Ministro dell’Ambiente giapponese Shinjiro Koizumi di usufruire – primo nella storia del Paese – del congedo di paternità di due settimane in occasione della nascita del primo figlio è l’occasione per riflettere sul tema anche rispetto a quanto succede in Italia.

Il nostro Paese, infatti, è caratterizzato da un modello in cui la famiglia riveste un ruolo di ammortizzatore sociale primario e solo recentemente ha cominciato a colmare il divario con gli altri grandi Paesi dell’Europa occidentale. Se i modelli di welfare nordico e anglosassone sono associati a una maggiore diffusione della conciliazione a livello sia aziendale sia pubblico, i modelli continentale e mediterraneo – in cui rientra il nostro Paese – si stanno muovendo ora, con ritardo, per colmare il divario, in particolare sul tema della maternità-paternità.

Ma più che delle misure previste dalle normative, occorre riflettere su come affrontare le potenziali criticità presenti a livello culturale, nelle famiglie e nelle organizzazioni aziendali. Bisogna innanzitutto domandarsi se le famiglie sono pronte a cambiare paradigma nell’organizzare i propri equilibri interni, dando maggior spazio alle mamme sul fronte lavorativo e ai papà più tempo da dedicare alla cura dei figli.

Sul fronte aziendale la sfida maggiore riguarda la capacità dei responsabili di cogliere da un lato il vantaggio di una modalità di lavorare più flessibile, che lasci ai collaboratori maggiore scelta nella gestione dei propri tempi di vita privata e lavorativa, e dall’altra di comprendere l’importanza che i propri lavoratori, in particolare i padri, prendano del tempo per dedicarsi alla famiglia.

Senza una reale percezione dei vantaggi che queste misure potrebbero generare, i cambiamenti che la direttiva introduce rischiano di sortire l’effetto di un adempimento, con il rischio di penalizzare, per esempio sul fronte delle opportunità lavorative, chi ne fruirà.

Tuttavia, diverse ricerche dimostrano che, quando il padre utilizza il congedo, ci sono ricadute positive sia in termini di aumento dell’occupazione femminile sia nella riduzione della tradizionale divisione di ruoli in famiglia. Studiosi norvegesi hanno fornito diversi dati che dimostrano, per esempio, come il congedo di paternità favorisca una maggiore partecipazione degli uomini alla cura dei figli e migliori performance scolastiche dei bambini; studi americani hanno dimostrato che i padri che hanno preso un congedo di paternità più lungo partecipano maggiormente ad attività che contribuiscono alla crescita dei propri figli. Inoltre, il ricorso al congedo di paternità riduce il conflitto nella coppia sulla divisione del lavoro domestico e ne bilancia i carichi.

Congedo di paternità ancora poco utilizzato

Per cercare di riequilibrare gli oneri di cura tra i genitori, numerosi Paesi europei, Italia compresa, hanno negli ultimi anni messo in atto misure che incoraggiano il ricorso al congedo di paternità, tra cui in alcuni casi l’obbligatorietà e/o la copertura economica al 100%. Ma se paragonati a quelli destinati alle madri, gli strumenti di conciliazione per i padri sono sbilanciati e non pienamente efficaci. Si consideri che il congedo retribuito di paternità è assente in 15 dei 42 Paesi Ocse, mentre nei restanti la durata media è di una settimana, tra i quali non mancano però casi virtuosi come la Finlandia che prevede nove settimane di congedo di paternità al 70% della retribuzione.

In Italia, il congedo di paternità obbligatorio (remunerato al 100%) con la legge di Stabilità 2018 è stato esteso in via sperimentale da due a quattro giorni (numero di giornate era tuttavia ancora simbolico) e a cinque giorni dal 2019 e a sette per il 2020, ma continua a essere poco utilizzato: ne usufruisce infatti solo il 30% dei padri lavoratori, come riporta il Rapporto sul neowelfare per la famiglia di Assimoco.

Il tasso di adozione del congedo di paternità e del congedo parentale da parte dei padri è aumentato negli ultimi anni nei Paesi europei, tuttavia i livelli di fruizione sono ancora relativamente bassi. La ricerca Eurofound del 2015 dimostra che a livello europeo la fruizione del congedo parentale e di paternità dipende da specifiche caratteristiche che differiscono in ciascuno Stato, come la durata, il compenso, le disposizioni per la condivisione dei carichi di cura tra i due genitori e la flessibilità con cui è possibile gestire il tempo di congedo.

Le modalità di ripartizione del congedo parentale tra i genitori dipendono da molti fattori fra loro intrecciati: (scarsa) conoscenza delle modalità di fruizione del congedo; disparità dei compensi; disponibilità e flessibilità delle strutture per l’infanzia; modelli culturali prevalenti di organizzazione familiare; la misura in cui i lavoratori temono l’isolamento dal mercato del lavoro quando si assentano.

Madri caregiver e padri breadwinner

Come è sottolineato anche dall’indagine nazionale Diamo voce ai papà condotta da Piano C, l’aspetto culturale è uno degli elementi nodali nella decisione o meno dei padri di coinvolgersi nella cura dei figli e nel supporto alla carriera lavorativa della madre. E spesso il problema culturale si gioca innanzitutto all’interno della famiglia stessa in cui, per buona parte degli intervistati, la ragione del non aver usufruito del congedo parentale è che ne ha goduto interamente la madre o che non sono i padri a occuparsi personalmente della gestione quotidiana dei figli (61% dei rispondenti tra coloro che non hanno usufruito del congedo parentale).

Sempre dall’indagine di Piano C emerge però che spesso i padri esprimono un desiderio di protagonismo nel rapporto con i figli e in tal senso non si sentono tutelati. In uno studio svolto in Repubblica Ceca da Open Men’s League nel 2013, un terzo delle donne intervistate ha dichiarato che i padri non sarebbero stati in grado di prendersi cura correttamente dei propri figli, mentre la stessa percentuale di donne ha dichiarato di non voler rinunciare al proprio ruolo tradizionale di madre. Di contro, il 42% degli uomini ha dichiarato che avrebbe desiderato godere del congedo se avesse avuto un figlio.

Ciò che emerge da queste analisi è un cortocircuito organizzativo-culturale che nelle famiglie ancora schiaccia le madri come carer e i padri come breadwinner, rendendo difficile attuare una reale equa distribuzione dei carichi di cura.

Altro elemento determinante è l’aspetto economico. La decurtazione dello stipendio prevista con l’utilizzo del congedo parentale porta le famiglie (al di là dell’esigenze legate all’allattamento che ovviamente fanno ricadere la scelta di utilizzo del congedo sulla madre) a propendere per la salvaguardia dello stipendio più alto, tradizionalmente quello maschile.

Come dimostrato dai dati del Rapporto Assimoco, nel confronto fra quattro Paesi Ue, la proporzione di utilizzo del congedo parentale o di paternità sembra essere proporzionale al livello di indennità: in Spagna e Francia, dove il congedo di paternità è remunerato al 100%, lo utilizza rispettivamente il 74% e il 62% dei padri. In Germania, dove quello parentale è remunerato al 65%, il 34% dei padri fa ricorso ai due mesi di quota riservata. In Italia, invece, dove l’indennità per il congedo parentale è del 30% (se la madre non ne ha usufruito, o in alternativa dello 0%), solo il 20% delle domande proviene dai padri.

La decisione dei padri di prendere il congedo parentale non dipende solo dalla quantità di benefici e tempo a loro riservati, ma anche da quanto siano flessibili i diritti alle ferie e quanto sia fattibile conciliare vita e lavoro. Per esempio, i regolamenti che prevedono i congedi parentali part-time, come il sistema olandese, facilitano il reinserimento dei genitori o il proseguimento dell’occupazione, con un vantaggio anche per il datore di lavoro, perché i dipendenti non saranno completamente assenti per la durata del congedo.

Un altro modo importante per migliorare la flessibilità è consentire ai genitori di prendere il congedo fino a una certa età del bambino e in diverse fasi, non necessariamente cronologiche. Il diritto dei genitori a lavorare in orari flessibili, come nel caso del Portogallo per i genitori con figli di età fino a 12 anni, supporta ulteriormente i padri nel compito di cura dei figli.

L’articolo è liberamente tratto dal libro Genitori al lavoro. Il lavoro dei genitori di Elena Barazzetta.
Per informazioni sull’acquisto di copie scrivi a daniela.bobbiese@este.it (tel. 02.91434400)

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