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Perché il ‘Ben-essere’ è diverso dal benessere

Il ‘ben-essere’ non è il benessere. Tra la parola composta e il sostantivo oggi più abusato, e volentieri espresso in business english con il termine “wellbeing”, intercorre la stessa differenza che c’è tra essere e avere. Sì, perché lo star bene all’interno di un’organizzazione è uno stato della mente, un modo felice di vivere il proprio lavoro e la relazione con il contesto in cui si svolge.

Un sentire e un sentirsi non legati necessariamente a disponibilità materiali. Una conquista nel percorso di crescita e di cambiamento di ciascuno, non riducibile ai benefit offerti dal welfare aziendale: la palestra, l’asilo, il maggiordomo, il babysitting on demand, corsi di yoga e meditazione zen, fino all’ultima frontiera offerta da Facebook e Google con la copertura delle spese per permettere al personale femminile di congelare gli ovuli e concentrarsi sulla carriera.

In fondo il welfare non è che un complemento della retribuzione, in grado di poter cucire su misura la soddisfazione dei bisogni individuali e migliorare il reale potere d’acquisto dei dipendenti temperando un cuneo fiscale divenuto sempre più insostenibile.

Un corrispettivo ben articolato e spesso efficace, se pensiamo, per esempio, ai concreti benefici di un’assicurazione sanitaria a fronte delle carenze del servizio sanitario pubblico. Con un doppio ritorno, sia monetario sia di Employer branding per l’azienda.

Senza tralasciare il business messo in moto a vantaggio delle stesse imprese fornitrici di piattaforme di welfare e di servizi connessi. Ma di fronte alle piccole e grandi frustrazioni e ai sentimenti negativi continuamente alimentati dalla competizione e dallo stress nelle organizzazioni, gli strumenti materiali del nuovo welfare, se da una parte contribuiscono oggettivamente a migliorare le condizioni di lavoro e la fidelizzazione all’azienda, dall’altra non aiutano la persona a elaborare strategie di superamento del malessere e delle percezioni negative.

Nel lavoro e nella vita privata, siamo la stessa persona

A volte, nonostante la palestra, il fitness e il carrello della spesa, la vita aziendale resta un inferno. Il vero nodo da sciogliere perciò non sembra essere la conciliazione tra tempi lavorativi e di vita, ma il riconoscere qualità di vita anche al lavoro, evitando la trappola concettuale di una scissione della persona tra ciò che è sul lavoro e ciò che è nella vita privata: benessere è infatti essere nella pienezza di sé in ogni sfera del proprio agire e del proprio relazionarsi.

D’altra parte, guardando i criteri con cui sono valutate le migliori aziende in cui lavorare in Europa (con disappunto si nota la troppo frequente assenza di società italiane tra le prime), si scopre che alla base del sistema di valutazione ci sono livelli di relazioni e non la misura della disponibilità di benefit materiali: fiducia reciproca con i manager; orgoglio con il proprio lavoro e con l’organizzazione; fiducia reciproca con i colleghi.

Le aziende sono quindi valutate su cinque parametri (che propongo alla riflessione di ogni Responsabile delle Risorse Umane): la credibilità, il rispetto, l’equità, l’orgoglio, la coesione. Sono questi gli essenziali fattori alla base del ben-essere organizzativo e della salute stessa delle organizzazioni.

Facciamoci un esame di coscienza: su quale di questi fattori nelle nostre aziende ci diamo la sufficienza? La credibilità viene prima della palestra; il rispetto non lo trovi in nessuna piattaforma di caring; l’orgoglio e la coesione non si ottengono con il miglior pacchetto di benefit, ma si costruiscono ogni giorno nei team e con l’esempio dei leader.

Serve chiarezza sulla parola “benessere”

L’equità è poi il benefit decisivo, senza il quale la percezione d’iniquità da parte dei collaboratori ci porta agli antipodi del benessere organizzativo, genera la demotivazione più profonda nella persona, dilaga in malessere organizzativo come una metastasi. Il cancro dell’organizzazione.

Vi è però un modello di welfare care giver, alternativo a quello meramente retributivo, che si concilia con i fattori di ben-essere organizzativo e li rinforza: quello per esempio che offre formazione per lo sviluppo dei collaboratori; o anche cultura, come quello riconosciuto da Cucinelli, per il rimborso delle spese per i libri, il cinema, il teatro, le visite ai musei; o quello che offre supporto e assistenza ai genitori per lo studio e per la crescita dei figli, favorendo una relazione tra l’azienda e i figli dei dipendenti utile a entrambi per costruire futuro.

È un altro welfare, che persegue più la visione olivettiana della missione sociale dell’impresa che non l’Employer branding. Una scelta coraggiosa, che richiede saggezza delle Direzioni del Personale, piena maturità delle relazioni sindacali, e soprattutto chiarezza sul significato della parola “benessere”.

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Francesco D. Perillo

Laurea in filosofia, Francesco Donato Perillo ha maturato una trentennale esperienza in Italia ed all’estero nella Direzione del Personale di aziende del Gruppo Finmeccanica (Alenia, Selex, Alenia Marconi Systems, Telespazio). Dal 2008 al 2011 è stato Direttore Generale della Fondazione Space Academy per l’alta formazione nel settore spaziale. Docente a contratto di Gestione delle Risorse Umane all’ Università Suor Orsola Benincasa di Napoli e formatore manageriale della Luiss Business School, è autore dei libri: La leadership d’ombra (Guerini e Associati, Milano 2005); L’insostenibile leggerezza del management-best practices nell’impresa che cambia (Guerini e Associati, Milano 2010); Romanzo aziendale (Vertigo, Roma 2013); Impresa Imperfetta (Editoriale scientifica, Napoli 2014), Simposio manageriale - prefazione di Aldo Masullo e postfazione di Pier Luigi Celli, (Editoriale scientifica, Napoli 2016). Cura la rubrica "Impresa Imperfetta" sulla rivista Persone&Conoscenze della casa editrice Este. Editorialista del Corriere del Mezzogiorno (gruppo Corriere della Sera).

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