Di_Maio_cravatta

Se bastasse la cravatta a fare il leader…

Per sancire il suo passo indietro come capo politico del Movimento 5 Stelle, Luigi Di Maio s’è affidato a un gesto iconico: dal palco del Tempio di Adriano ha sciolto il nodo alla cravatta, quasi liberandosi di un peso che si portava dietro da un pezzo.

Annunciando le sue dimissioni da leader del M5s, il Ministro degli Esteri ha spiegato che la cravatta ha contraddistinto il suo operato da capo politico, un “modo per onorare la serietà delle istituzioni della Repubblica e il contegno che deve avere un uomo dello Stato”. E, in fondo, alla cravatta si associa comunemente l’idea di lavoro e i nostri leader politici – almeno quelli di un tempo – ne hanno fatto un indumento indispensabile.

In tempi non sospetti, Francesco Varanini ragionava proprio sull’accessorio di abbigliamento e del suo significato nel mondo del lavoro. Lo riproponiamo nella sua forma integrale (l’articolo è stato pubblicato sul numero 274 di Sviluppo&Organizzazione).

Simbolo dell’abito da lavoro maschile

Ogni cultura si manifesta attraverso gli artefatti: cose fatte dall’uomo, cose fatte ‘per opera d’arte’. Una tipica, basilare manifestazione della cultura è il modo in cui ci vestiamo. Ogni azienda ha una propria cultura. Ogni azienda ha un proprio ‘codice indumentario’; si può ben dirlo in italiano, anche se sentiamo per lo più dire, in inglese, dress code.

Sono oggi scomparsi i camici, le mezzemaniche per gli impiegati. Anche per motivi di sicurezza gli indumenti di lavoro in fabbrica sono rigidamente definiti. Il personale che è a contatto con il pubblico, spesso, è tenuto a indossare una uniforme. Ma esista o no una regola formale, esplicitata, sappiamo come ci si deve vestire – e come sarebbe inappropriato vestirsi – ‘per andare al lavoro’.

Un elemento, più di ogni altro, sintetizza l’idea stessa del maschile ‘abito da lavoro’: la cravatta. Niente è più inutile della cravatta, da un punto di vista funzionale. Niente è più simbolicamente necessario.

La prima apparizione nel XVII secolo

Per raccontare la storia della cravatta dobbiamo risalire alla Guerra dei Trent’anni (1618-1648). Sono in servizio in Francia mercenari della Frontiera Croata, territorio di confine dell’Austria asburgica armato contro le incursioni dell’Impero ottomano. Del loro tradizionale costume fa parte una sciarpa annodata al collo. “Hrvat” significa, in croato, “croato”. Da hrvat il francese cravate.

La sciarpa appare subito graziosa ai parigini. Diventa presto di moda. Sembra che il piccolo Luigi, futuro Luigi XIV, Re Sole, abbia indossato la sua prima cravatta, di pizzo, all’età di sette anni. La sua cravatta, indossata in diverse fogge lungo l’arco dei settant’anni di regno, traina una moda che invade l’Europa.

Il francese è presto tradotto in inglese: cravat. Troviamo in inglese anche necktie, con un evidente richiamo a neck, “collo”. Ma la parola che si afferma è ancor meno nobile: tie. Tie, così come già il protogermanico taugo e l’antico inglese teag, parlano di “ciò con cui si lega una qualsiasi cosa”: “stringa”, “corda”, “cinghia”, “catena”, “laccio”.

Possiamo dunque notare come l’abito da lavoro maschile trovi sintesi in un laccio. Qualcosa che limita e costringe. Qualcosa con cui, al limite, il maschio al lavoro strozza se stesso. Costringendosi con doveri e obblighi. Obbligare dal latino obligare, parola composta da ob, “davanti”, “intorno”, e ligare, “legare”: quasi “fasciare moralmente”.

Possiamo notare qui una differenza: il codice indumentario della donna al lavoro non prevede cravatta. Un segno, forse, di un differente modo di intendere il lavoro. Possiamo notare, del resto, la progressiva sparizione della cravatta dai codici indumentari maschili di ogni azienda. Forse il segno di un orientamento a intendere il lavoro come apertura anziché come difesa; come  costruzione anziché come costrizione.

Luigi di Maio, cravatta, dress code


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Francesco Varanini

Francesco Varanini è Direttore e fondatore della rivista Persone&Conoscenze, edita dalla casa editrice ESTE. Ha lavorato per quattro anni in America Latina come antropologo. Quindi per quasi 15 anni presso una grande azienda, dove ha ricoperto posizioni di responsabilità nell’area del Personale, dell’Organizzazione, dell’Information Technology e del Marketing. Successivamente è stato co-fondatore e amministratore delegato del settimanale Internazionale. Da oltre 20 anni è consulente e formatore, si occupa in particolar modo di cambiamento culturale e tecnologico. Ha insegnato per 12 anni presso il corso di laurea in Informatica Umanistica dell’Università di Pisa e ha tenuto cicli di seminari presso l’Università di Udine. Tra i suoi libri, ricordiamo: Romanzi per i manager, Il Principe di Condé (Edizioni ESTE), Macchine per pensare.

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