Wto, la scommessa persa sulla Cina

L’11 dicembre 2001 la Cina faceva il suo ingresso nella World trade organization (Wto), l’Organizzazione mondiale del commercio. All’epoca l’Occidente aveva supposto, anche se con cautela, che l’apertura del mercato cinese avrebbe presto portato a una configurazione politica meno autoritaria e a una maggiore tutela dei diritti civili delle persone che abitano nel grande Paese asiatico. 

Speranze disilluse e che, anzi, si sono trovate davanti a uno scenario quasi opposto: sono i Paesi occidentali che hanno iniziato a guardare con interesse al modello socioeconomico cinese come a una formula vincente da cui trarre insegnamenti. Contro le aspettative dell’allora Presidente degli Stati Uniti Bill Clinton, vero artefice della trattativa che ha portato la Cina nell’organizzazione internazionale, e della Rappresentante per il Commercio statunitense in carica durante il mandato di Clinton Charlene Barshefsky, che ha guidato il negoziato, Pechino è oggi infatti il primo vero grande esempio di come si possa conciliare, con i tanti limiti – che sarebbero da analizzare – un sistema politico autocratico con una forma di economia liberale di mercato. 

Facciamo però un passo indietro cercando di capire, guidati da Gianluca Ansalone, Docente di geopolitica e autore del libro Geopolitica del contagio (Rubettino Editore, 2021), innanzitutto cosa ha spinto la Cina, 20 anni fa, a entrare a far parte della Wto. Dal punto di vista del docente, in quel momento il Paese si trovava davanti a un bivio: essere il grande attore protagonista della geopolitica e dell’economia mondiale oppure uno dei tanti casi di mancate promesse di sviluppo di Paesi potenzialmente in ascesa ma limitati dal non essere parte integrante del circuito internazionale.  

“La grande scommessa dell’Occidente, in quelli che erano gli anni del turbo capitalismo, dell’apertura dei mercati come strumento politico, fu pensare di integrare la Cina nei circuiti economici e finanziari globali come garanzia per un’omologazione politica di Pechino”, spiega Ansalone. Detto altrimenti, quel tentativo era in realtà una strategia politica molto precisa per spingere nella direzione di un adeguamento del sistema politico cinese e della sua postura internazionale agli standard occidentali. Una scommessa, basata sull’idea clintoniana che l’economia avesse il potere di regolare gli equilibri tra Stati, clamorosamente persa perché il colosso asiatico ha continuato ad andare per la sua strada. 

Pechino ha smentito anni di teorie economiche e politiche 

La Cina, però, la sua di scommessa l’ha vinta eccome, dimostrando che un sistema autocratico come il suo poteva andare a braccetto con l’economia liberale, con un Prodotto interno lordo (Pil) che secondo i dati del Fondo monetario internazionale (Fmi) dal 2000 è sempre stato in crescita, con un picco nel 2007 del 14,2%. E questo, spiega Ansalone, ha smentito decenni, se non secoli, di teorie economiche e politiche basate sull’assioma che i modelli di democrazia occidentali liberali favoriscano la crescita e il benessere collettivo, a loro volta influenzati dalla struttura economica: “I sistemi di pianificazione centralizzata, socialista, sul modello dell’Unione Sovietica, hanno dimostrato con la fine della Guerra Fredda che a un certo punto non hanno retto più e sono implosi su loro stessi. Ma dove non è riuscita l’Urss è riuscita la Cina. Per quanto la storia sia ancora tutta da scrivere questo ha cambiato sostanzialmente la teoria e la pratica delle relazioni internazionali e dell’economia politica”. Ora la domanda è quanto sia sostenibile, nel lungo e lunghissimo periodo, un modello del genere, quanto cioè il Dragone sia in grado di mantenere la sua integrità sociale e territoriale. 

Se Pechino non si è dimostrata essere particolarmente affascinata dalla democrazia occidentale, al contrario i Paesi a Ovest del colosso asiatico hanno iniziato a interrogarsi sui limiti, prima ancora che sui vantaggi, dei sistemi democratici liberali di mercato, quelli che la Cina non ha.  

Tra le classi dirigenti e in una parte della politica – è il parere degli esperti – si comincia insomma a sentire una crescente attrazione per l’idea di un sistema economico molto efficiente anche laddove questo, come nel caso cinese, dovesse andare di pari passo con una riduzione delle libertà politico-sociali, purché questo significhi grande ricchezza produttiva. Il modello, secondo alcuni analisti, sarebbe insomma da non condannare in toto.  

“Cina e Occidente si guardano in qualche modo allo specchio e sono entrambe alla ricerca del punto di equilibrio giusto. La pandemia ha portato a un’accelerazione in queste riflessioni: ci siamo trovati, di fronte all’emergenza globale, a dover ripensare completamente il ruolo dello Stato nell’economia e quanto debba essere centralizzato il progetto di evoluzione sociale”, illustra Ansalone ricordando, per esempio, come con la pandemia sia tornata scottante la domanda se debba essere lo Stato a occuparsi integralmente della salute pubblica a discapito delle autonomie per decenni ritenute preziose. Invece che intervenire sulla modernizzazione della democrazia, per renderla più efficiente, comincia all’opposto a farsi pericolosamente largo l’idea che esistano modelli alternativi che possono funzionare altrettanto bene. E questa potrebbe essere un’idea molto pericolosa.  

Il modello cinese ha prosperato anche con la pandemia 

La pandemia ha poi avuto un ruolo enorme nel posizionamento della Cina negli equilibri globali, per una serie di ragioni. La prima è che Pechino ha utilizzato l’emergenza sanitaria come moltiplicatore del proprio potere a livello internazionale e l’esportazione dei vaccini, sfruttati da un punto di vista geopolitico, è un caso emblematico. Sono state, infatti, le aziende cinesi le prime a esportarli in alcune aree del mondo, come l’America Latina, l’Africa e il Sud Est asiatico, che usano solo quei sieri, con risultati dei quali peraltro non si sa molto considerando che la comunità scientifica non ha piena visibilità dei dati.  

In secondo luogo, la Cina ha sempre provato negli ultimi 20 anni a tenere sotto controllo le tensioni interne e proprio l’emergenza sanitaria ha aperto la strada per una stretta autoritaria da questo punto di vista. “Da Piazza Tienanmen in avanti non è solo una questione di dissidio politico. L’azzeramento dell’instabilità, della tensione sociale, è la precondizione perché il modello cinese funzioni”, spiega Ansalone.  

Da ultimo, l’emergenza sanitaria ha portato a un’accelerazione delle prestazioni cinesi in quei settori che già vedevano la Cina in prima linea, i cluster in cui il Paese mira a essere campione mondiale: Intelligenza Artificiale, tecnologie di Rete e utilizzo dei dati. Mentre alle nostre latitudini ci si affanna a discutere sulle implicazioni del 5G, con tanto di teorie complottiste, in Cina si lavora già al 6G e l’Intelligenza Artificiale, per esempio, comincia a essere applicata addirittura nella Sanità. Si prevede che l’utilizzo dei dati sia inoltre destinato ad avere un’accelerata fondamentale nell’ambito sanitario: “Siamo in grado di dire su quale terreno la Cina si vuole giocare la sua grande partita di potere, quindi dove saranno concentrate le risorse. Il suo modello di innovazione e investimento con la pandemia ha subito un orientamento molto preciso”, spiega Ansalone. 

La forza del soft power negli equilibri internazionali 

Fino a che, sperando che non accada mai, modelli socioeconomici contrapposti come quello cinese e statunitense o più in generale occidentale non arriveranno allo scontro, la battaglia internazionale per essere la maggiore potenza mondiale va in scena senza armi. In questo ambito del cosiddetto soft power rientra anche l’Olimpiade invernale Beijing 2022 che ha visto la Cina ospitare per la seconda volta nella storia i giochi olimpici nel suo territorio. Un esercizio di collaborazione sotto il cappello dello slogan “Together for a shared future”, ma anche un fulgido esempio di come esercitare una forte influenza senza usare la forza. Spiega Ansalone: “Per l’economia e l’immagine della Cina Beijing 2022 ha un significato fondamentale. Il Paese conta e punta molto su questo aspetto di diplomazia culturale, commerciale, vaccinale. Per evitare di doversi misurare nell’unico modo in cui fino a oggi le grandi potenze si sono misurate per verificare se sono tali e cioè, ahimè, con una guerra”. 

In quest’ottica la stessa globalizzazione, di cui il Presidente cinese Xi Jinping è sempre stato portavoce al Forum economico mondiale di Davos, dove è ormai un ospite fisso, diventa in qualche modo una via preferenziale per esportare il proprio modello senza arrivare allo scontro. Un percorso che passa anche attraverso l’apertura dei mercati. Il leader cinese ne è paladino perché producendo enormi quantità di merci ha bisogno di Paesi che possano esserne inondati affinché il Pil del Dragone continui a viaggiare ai ritmi vertiginosi a cui ci ha abituati negli ultimi anni. Dal 2001 al 2020 le esportazioni cinesi in Europa sono aumentate da 80 a 383 miliardi di euro e negli Stati Uniti da 100 a 540 miliardi di dollari dal 2001 al 2018. 

“Per la fabbrica del mondo è fondamentale che temi come i dazi e le barriere d’ingresso siano tabù: più il mercato è aperto e integrato e più la Cina avrà la sua convenienza a starci entro. Ma quando Xi partecipa a Davos la proposta economica ne sottende sempre una politica ovvero l’idea che il modello cinese possa funzionare anche fuori dai confini nazionali”, spiega Ansalone. Uno scenario molto lontano dall’idea di conciliazione, se non omologazione, dei due modelli riposta nelle aspettative di Clinton nel 2021. Si tratta, piuttosto, di un indice di tensione alimentato dai costanti tentativi delle potenze internazionali di guadagnare terreno. Non è guerra, ma non è neanche pace.  

cina, Gianluca Ansalone, World trade organization, economia liberale


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Erica Manniello

Laureata in Filosofia, Erica Manniello è giornalista professionista dal 2016, dopo aver svolto il praticantato giornalistico presso la Scuola superiore di Giornalismo “Massimo Baldini” all’Università Luiss Guido Carli. Ha lavorato come Responsabile Comunicazione e come giornalista freelance collaborando con testate come Internazionale, Redattore Sociale, Rockol, Grazia e Rolling Stone Italia, alternando l’interesse per la musica a quello per il sociale. Le fanno battere il cuore i lunghi viaggi in macchina, i concerti sotto palco, i quartieri dimenticati e la pizza con il gorgonzola.

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