competenza

C’è (sempre) bisogno di competenza

Il tema delle competenze percorre sempre più estesamente ogni riflessione e ogni progetto che riguardi il mondo del lavoro e quello dell’istruzione.  La ricchezza e la complessità delle elaborazioni scientifiche e professionali su questo tema e la criticità dell’uso che se ne fa in entrambi i domìni richiedono una mappa per orientarsi.

Il volume Le competenze. Una mappa per orientarsi (Fondazione Agnelli, 2018), promosso da una collaborazione fra Fondazione Agnelli e Associazione Scuola Democratica e curato da Luciano Benadusi, già Professore Ordinario all’Università Sapienza e uno dei maggiori esperti italiani di Scienze dell’Educazione, e da Stefano Molina, Dirigente di Ricerca della Fondazione Agnelli, contiene una serie di contributi di studiosi che danno conto in modo approfondito della letteratura e delle controversie che hanno accompagnato lo sviluppo delle idee e delle strumentazioni sulle competenze.

Il capitolo iniziale aiuta a capire le ragioni della popolarità delle competenze nel mondo del lavoro e dell’istruzione. La prima è data dalla crescente fluidità e instabilità del lavoro che ha portato progressivamente a descrivere meglio le job requirement, man mano che questi lavori sono andati cambiando e divenendo sempre più evanescenti.

La seconda è che i sistemi di istruzione e di formazione pubblici – dalla scuola media all’università – che avevano nel passato privilegiato l’insegnamento e l’apprendimento delle conoscenze e delle discipline, si sono irrigiditi nella architettura dei titoli di studio e delle strutture scolastiche autorizzate a erogarli e si sono rivelate scarsamente in grado di favorire l’interdisciplinarietà, le capacità di affrontare l’inaspettato e l’apprendimento delle competenze sociali di incidere sui comportanti e far crescere le soft skill. Vedremo nelle conclusioni che l’urgenza di fronteggiare queste due esigenze è stata al tempo stesso la forza e la debolezza dell’approccio e delle metodologie basate sulle competenze.

Nel secondo capitolo si torna alle grandi polarità che hanno accompagnato il percorso delle competenze: potenziale vs prestazione, atomismo vs olismo, work based vs worker based, trasferibilità vs non trasferibilità, singolare vs standardizzabile.

E in un altro capitolo si identificano tre principali filoni interpretativi: l’identificazione delle competenze con la performance (avere competenze vuol dire fare le cose meglio nel lavoro e nella vita); le competenze come sommatoria di risorse e potenzialità (le competenze come possesso della persona); le competenze come capacità di mobilizzare risorse proprie, delle organizzazioni e della comunità in cui si vive.

La formazione per costruire le competenze

La grande questione che emerge è se la formazione deve costruire competenze per l’occupabilità in lavori che mutano e sono scarsamente prevedibili e/o competenze per lo sviluppo umano delle persone e/o competenze per la formazione del cittadino alla vita sociale e alla democrazia. Dovremmo dire: per tutti e tre questi scopi!

In realtà i sistemi educativi in Occidente si sono polarizzati fra percorsi destinati ai sofoi e alla classe dirigente da un lato e percorsi destinati ai demurgoi e ai lavoratori operativi dall’altro. Questo dibattito ci aiuta a ripensare a una formazione scolastica ed esperienziale capace di favorire lo sviluppo di professionisti occupabili che siano insieme persone integre e democratiche.

Nel terzo capitolo si criticano concetti che hanno accompagnato i sistemi di gestione delle persone nelle aziende. Per esempio il concetto di figura professionale da sostituire con quello di ambito di attività; il carattere contestuale ai diversi modelli di business con categorie come vision, expectation, potenzialità, prontezza, responsabilità, invece di farne categorie universali.

I sistemi di gestione hanno consolidato una inappropriata rappresentazione del lavoro come somma di compiti, il che induce i celebri Frey e Osborne a preconizzare una estesa sostituibilità del lavoro da parte delle macchine, tranne che per i compiti richiedenti elevata sensibilità tattile, intelligenza creativa e intelligenza sociale.

In conclusione gli autori del volume scrivono che le competenze come approccio e come strumentazione sono state “elevate al rango di nuovo paradigma pedagogico istituzionalizzato”, ma hanno scarsamente penetrato la pratica didattica tranne che per le dimensioni (burocratiche) della certificazione delle competenze. E indicano bene i fattori che rendono il “sistema educativo” poco in grado di adottare approcci e strumentazione capaci di sostituire percorsi di crescita di competenze alla mera erogazione di titoli di studio.

La progettazione dei nuovi lavori

Ma oltre a queste difficoltà di applicazione, credo che ci siano due questioni di fondo: una relativa al lavoro e uno ai processi di apprendimento. Fra pochi anni gran parte dei lavori che esistono non ci saranno più o saranno profondamente cambiati. Sorgeranno nuovi lavori.

Di fronte a questa incertezza il sistema produttivo tende per lo più a rinunciare a progettare il lavoro, ossia a fare job design, e a ripiegare invece sulla apparente flessibilità consentita da una gestione per competenze, come sorta di molecole o di mattoncini utili per la selezione, la gestione, la valutazione, che poi potranno essere ricomposte secondo necessità.

Prevale ancora una visione vecchia del lavoro: mansioni fatte di compiti destinati a essere allocati fra gli uomini e le macchine (invece che nuove idee di lavoro, di ruoli, di professioni); una visione molecolare e frantumata del lavoro come somma di competenze (hard e soprattutto soft).

Progettare i lavori invece vuol dire configurare, nella concretezza e varietà dei processi produttivi e nella realtà della vita delle persone, nuove idee di lavoro valide, solide, decenti che offrano professionalità, identità e cittadinanza, come per esempio lo furono i lavori artigiani nel Rinascimento, le professioni nell’800 e lo stesso lavoro di fabbrica del 900.

È possibile – perché sta già avvenendo in molti contesti – progettare lavori basati su conoscenza, responsabilità dei risultati, cura dei bisogni dei ‘clienti’ esterni o interni, padronanza e controllo dei processi, cooperazione con le persone e con la tecnologia, e certamente irrobustite competenze tecniche e sociali.

È possibile costruire dinamicamente ruoli, mestieri e professioni che creino valore nel sistema di produzione di beni e servizi e che assicurino alle persone identità e una buona qualità della vita di lavoro. È inoltre necessario progettare nuovi sistemi educativi che combinino formazione della persona e abilitazione professionale.

Liberamente tratto dall’articolo di Federico Butera dal titolo Nuove competenze per nuove professioni. Ripensare a come progettare il futuro, pubblicato sul numero 283 di Sviluppo&Organizzazione.
Per informazioni sull’acquisto di copie e abbonamenti scrivi a daniela.bobbiese@este.it (tel. 02.91434400)

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Federico Butera

Federico Butera è Professore Emerito all’Università degli Studi Milano-Bicocca e Presidente della Fondazione IRSO. Inoltre, è autore del recente libro Organizzazione e società – Innovare le organizzazioni dell’Italia che vogliamo (2020).

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