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Combattere per il futuro

Difficile scrivere quando è già stato detto tutto. Numeri, dati, percentuali che scivolano a ritroso inesorabili e ogni giorno trovano una penna pronta a dare una nuova lettura di una situazione peggiorata dalla pandemia. È giusto non abbassare l’intensità dei riflettori su un fenomeno al quale si è dato il nome di “she-cession“, ma il compito si fa più arduo se si cerca di fare un passo oltre la registrazione ragionieristica dei dati e ci si interroga sulle motivazioni.

Perché se dalle rilevazioni sull’impatto dell’occupazione femminile sul Pil datate 2012 nulla è cambiato e quei dati vengono citati ancora oggi (mi riferisco ad Anna Maria Tarantola, al tempo Vicedirettrice Generale della Banca d’Italia e al suo calcolo: raggiungere gli obiettivi dell’Agenda di Lisbona, e cioè portare l’occupazione femminile dal 46 al 60%, ci avrebbe fatto guadagnare sette punti di Pil), il problema non solo persiste ma si è aggravato. Dai tempi delle rilevazioni di Tarantola sono passati quasi 10 anni.

Da un punto di vista personale, se mi guardo indietro, tiro un bel respiro di sollievo. I miei due figli hanno 10 anni di più, l’agenda non è più sotto scacco dai mal di pancia (oggi c’è una molto più democratica pandemia), le corse per correre ai colloqui a scuola sono un ricordo lontanissimo come pure le telefonate, sempre da scuola, che ti reclamavano immediatamente perché il pargolo aveva la febbre, era caduto dalle scale o altre amenità. E io magari ero da qualche parte a centinata di chilometri di distanza.

I pericoli dell’immobilismo per le donne

Cito il mio microcosmo perché le osservazioni personali sono giustificate dall’immobilismo culturale, occupazionale e retributivo che caratterizza la situazione delle donne. Negli ultimi anni, dall’asilo all’università dei miei figli, cosa è cambiato? “Viente años no es nada”, 20 anni non sono nulla, recita il verso di una canzone di Carlos Gardel; e invece 20 anni sono qui a dirci che siamo stati bravi a fare grandissimi balzi indietro.

Continuiamo a cancellare il futuro da ogni narrazione: ci sta provando l’Unione europea a richiamarci all’ordine denominando “Next Generation EU” gli strumenti per riprogettare, grazie a ingenti somme, le infrastrutture, materiali e di conoscenza, del nostro Paese. Ma noi niente da fare, continuiamo a parlare di Recovery Fund. Anche solo a nominarlo, il futuro ci fa paura.

E allora chi analizza i dati, come il demografo Alessandro Rosina, fa bene a ricordarci che la nostra idiosincrasia per il futuro si traduce in un Paese che cancella i figli dal proprio orizzonte. L’Istat stima che nel 2021 i nuovi nati scenderanno al di sotto dei 400mila e i 420mila nati nel 2019 rappresentano il minimo storico dall’unità nazionale a oggi. Fa bene anche la Direttrice dell’Istat Linda Laura Sabbadini a ricordarci che la pandemia colpisce le donne più degli uomini. È entrato in crisi il lavoro che le vede più occupate: servizi, ristorazione, lavoro di cura, commercio, lavori con contratti precari, part time o stagionali.

Non è vero che “Veinte años no es nada“: come saremo nel 2041 dipenderà da cosa facciamo oggi e da come utilizzeremo le risorse che arriveranno dall’Europa. Il movimento Half of it, donne per la salvezza, ha redatto un manifesto: le donne sono la metà della popolazione, giusto che le risorse destinate dall’Europa vengano utilizzate in modo da garantire l’impatto di genere di ogni provvedimento.

Il bisogno di un nuovo spirito combattivo

Ma ancora la risposta alla domanda non arriva. Che si fa, da oggi in poi? Più semplice dire cosa non si dovrebbe fare. Cessare immediatamente ogni forma di lamento. E mi riferisco per esempio alle donne non nominate all’ultimo cambio di Governo. Dobbiamo ancora essere scelte e ci lamentiamo se ci passa davanti un uomo. È qui che va scardinato il meccanismo. Chi si lamenta per non essere stata scelta, cosa ha fatto per alzarsi in piedi e farsi vedere?

I maschi tendono a scegliere maschi o femmine ossequienti ed è una nostra responsabilità alzare la voce e cercare di occupare uno spazio. Lamentarsi dopo è irritante. Dov’è finito lo spirito battagliero delle donne che hanno combattuto grandi battaglie di civiltà del secolo scorso? Non basta qualche post per scardinare oltre 2000 anni di cultura maschilista: l’atteggiamento di Socrate, che usava confrontarsi con la battagliera consorte Santippe, aveva certamente meno seguito del più categorico Aristotele, fermo sostenitore della superiorità del genere maschile; nemmeno la capacità generativa veniva riconosciuta, tanto che si considerava la donna poco più di un contenitore.

I retaggi partono da molto lontano, per questo è difficile sradicare comportamenti che svalorizzano il genere, e il pay gap ne è una dimostrazione (per non parlare della svalutazione del lavoro di cura). La manifestazione più retriva è il senso di possesso al quale molti uomini non hanno ancora rinunciato e ne leggiamo le conseguenze nelle notizie di cronaca. E il livello di scolarità non c’entra: se un giudice ancora giustifica il raptus da gelosia o colpevolizza l’abbigliamento – il ‘se l’è cercata’ alberga ancora in troppi animi – non faremo mai passi avanti. Accanto alla ricostruzione cronachistica dell’evento si deve muovere un’azione collettiva che inquadri, cercando di modificarlo, lo scenario culturale che lo determina. E perché questo avvenga più che altre norme, servono finanziamenti adeguati.

Soldi che non devono essere genericamente impiegati per far cultura sulle politiche inclusive. Le donne non vanno incluse, le donne sono già qui, bisogna creare le infrastrutture, di welfare e culturali, perché tutti possano giocare ad armi pari. Oggi non è ancora così e tra 20 anni non sarà meglio se non siamo noi donne, per prime. disponibili a cambiare atteggiamento, e linguaggio. Basta con questa retorica dell’aiuto alle donne.

Iniziamo ad aiutare le famiglie e le donne inizino a rifiutare il concetto del compagno che dà una mano. Non abbiamo bisogno di aiuto, abbiamo bisogno di una presa di coscienza e di responsabilità che, partendo dalla famiglia, si traduca in innovazione sociale. Come ha ribadito a gran voce il Andrea Ichino – durante una puntata del talk show PdM Talk – possiamo moltiplicare gli asili, ma se poi a prendere il bambino ci va sempre e solo la mamma, la tassonomia sociale non subirà alcuna evoluzione. Non siamo soggetti deboli che vanno aiutati, inclusi. Siamo la metà delle risorse del Paese. Direi piuttosto che la nostra voce andrebbe ascoltata un po’ di più. Quando una donna chiama il 112 e finge di ordinare una pizza, è già troppo tardi.

Linda Laura Sabbadini, pay gap, parità di genere, Half of it, Andrea Ichino, shecession, Alessandro Rosina


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Chiara Lupi

Articolo a cura di

Chiara Lupi ha collaborato per un decennio con quotidiani e testate focalizzati sull’innovazione tecnologica e il governo digitale. Nel 2006 ha partecipato all’acquisizione della ESTE, casa editrice storica specializzata in edizioni dedicate all’organizzazione aziendale, che pubblica le riviste Sistemi&Impresa, Sviluppo&Organizzazione e Persone&Conoscenze. Dirige la rivista Sistemi&Impresa e governa i contenuti del progetto multicanale FabbricaFuturo sin dalla sua nascita nel 2012. Si occupa anche di lavoro femminile e la sua rubrica "Dirigenti disperate" pubblicata su Persone&Conoscenze ha ispirato diverse pubblicazioni sul tema e un blog, dirigentidisperate.it. Nel 2013 insieme con Gianfranco Rebora e Renato Boniardi ha pubblicato il libro Leadership e organizzazione. Riflessioni tratte dalle esperienze di ‘altri’ manager. Nel 2019 ha curato i contenuti del Manuale di Sistemi&Impresa Il futuro della fabbrica.

Chiara Lupi


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