Fidati di quanto vali

“Definire la spesa per le risorse umane è complesso”. Riporto l’incipit di un articolo della storia di copertina del nostro prossimo numero di Persone&Conoscenze. Mi vien da pensare che un criterio semplice per definire il costo del personale sia sempre stato pagare di più gli uomini e meno le donne. Un principio facilmente applicabile, quasi equo, che tratta tutte le donne in un modo e gli uomini in un altro.

Per edulcorare il concetto ci viene in aiuto la lingua inglese. Analizzare il fenomeno del pay gap è meno cruento che non affrontare il tema del divario salariale. Un argomento scomodo, lasciato in un angolo per troppo tempo perché si sa, le donne sono soddisfatte già per il solo fatto di avere un lavoro, figurarsi se si sognano di negoziare la busta paga. Il lavoro gratis è connaturato nell’animo femminile.

Nessuno si sogna di retribuire il lavoro domestico: il lavoro di cura, di bambini e anziani, viene con grande nonchalance appaltato alle donne di famiglia. Che fanno in silenzio, e senza nulla pretendere, uno, due, tre lavori. Sia chiaro: prendersi cura della propria famiglia, quando c’è, è un lavoro naturalmente molto appagante. Ma non è questo il tema.

Il fatto è che il mondo del lavoro, subdolamente, ha sempre fatto leva su questa poca propensione delle donne a veder monetizzato il proprio lavoro e ne ha approfittato alla grande, per usare un eufemismo. Le donne, che sono bravissime a tenere i conti, ma hanno scarsa educazione finanziaria, non hanno mai considerato che un salario inferiore determina contributi inferiori e, quindi, un trattamento pensionistico in prospettiva meno vantaggioso.

Ora che il fenomeno assurge agli onori della cronaca in tutta la sua drammaticità, si inizia a parlarne di più. E in qualche azienda comincia a essere chiaro che mettere a budget una somma inferiore per una donna significa probabilmente dover rinunciare a professionalità che fanno la differenza. Le donne laureate in discipline STEM sono ancora poche, ma stanno aumentando e si stanno imponendo in tutto il mondo sulla scena politica. La legge Golfo-Mosca ha aumentato la percentuale di donne nei board dal 6 al 35,5%. Anche i più scettici dovrebbero capitolare di fronte ai dati.

Certo, lo stesso slancio in avanti nelle imprese non c’è stato, si fa ancora fatica a premiare il merito e, soprattutto, la maternità è una questione non risolta. O meglio, la stiamo affrontando nel modo peggiore possibile, rinunciandoci. La crisi della natalità nel nostro Paese è strutturale, siamo in pieno declino demografico.

Ma torniamo al tema. Il divario salariale c’è e qualcuno cerca di correre ai ripari. In Enel, per esempio, ogni anno viene destinato un budget per la sua riduzione, passato dal 16 all’8%. Dimezzato. Il problema è all’origine, al momento in cui le donne entrano in azienda. Mediamente il loro stipendio a inizio carriera è più basso e il divario nasce lì. Recuperare terreno è difficilissimo, anche perché la carriera può essere interrotta dalla maternità.

Se subentra il part time la busta paga viene falcidiata e la prospettiva di crescita, in molti casi, pure. La prima busta paga assume la connotazione di peccato originale, ma senza possibilità di redenzione. Negli Stati Uniti se ne sono accorti, per questo la domanda sull’ultima busta paga inizia a essere bandita dai colloqui. In California, New York, Massachussetts, Delaware e Oregon sono state vietate le domande relative al percorso salariale del candidato. Come a dire: quanto hai guadagnato finora non è un tema rilevante, guardiamo al futuro.

Saremo capaci anche noi? L’onda innescata dal movimento #MeeToo ha portato al centro della scena il tema della violenza sulle donne e dobbiamo aver chiaro che pagare di meno le donne è, a tutti gli effetti, una forma di violenza.

Lo stipendio è lo specchio del valore che si attribuisce a una professionalità. Pagare di meno le donne è un modo per attribuire loro un valore inferiore, con effetti sociali –e familiari– devastanti. Perché è lo stipendio inferiore al quale si rinuncia per dedicarsi alle attività di cura. Ed è anche per questo che quando le donne diventano mamme abbandonano la carriera. Perché conviene al bilancio familiare.

Per esprimersi in un gergo finanziario, l’investimento nelle attività di cura, se diventa totalizzante, non è consigliabile nel lungo periodo. Le necessità di cura tendono a diminuire nel tempo, ma nel frattempo crescono le esigenze legate al mantenimento. Che verranno soddisfatte con sempre maggiore difficoltà a fronte di uno stipendio che viene a mancare, o che è stato pesantemente penalizzato. Il problema, forse, è che a furia di violenze fisiche, verbali, psicologiche ed economiche, le donne fanno più fatica a fidarsi di se stesse. E di questo parleremo il prossimo anno al nostro Convivio.

Gender pay gap, violenza sulle donne, Legge Golfo-Mosca, #MeeToo, Convivio 2020


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Chiara Lupi

Articolo a cura di

Chiara Lupi ha collaborato per un decennio con quotidiani e testate focalizzati sull’innovazione tecnologica e il governo digitale. Nel 2006 ha partecipato all’acquisizione della ESTE, casa editrice storica specializzata in edizioni dedicate all’organizzazione aziendale, che pubblica le riviste Sistemi&Impresa, Sviluppo&Organizzazione e Persone&Conoscenze. Dirige la rivista Sistemi&Impresa e governa i contenuti del progetto multicanale FabbricaFuturo sin dalla sua nascita nel 2012. Si occupa anche di lavoro femminile e la sua rubrica "Dirigenti disperate" pubblicata su Persone&Conoscenze ha ispirato diverse pubblicazioni sul tema e un blog, dirigentidisperate.it. Nel 2013 insieme con Gianfranco Rebora e Renato Boniardi ha pubblicato il libro Leadership e organizzazione. Riflessioni tratte dalle esperienze di ‘altri’ manager. Nel 2019 ha curato i contenuti del Manuale di Sistemi&Impresa Il futuro della fabbrica.

Chiara Lupi


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