Il cambiamento come opportunità di crescita

Più di 60mila società di capitali, pari all’8,4% del totale, sono a rischio allerta crisi. Il dato emerge dall’analisi effettuata da Cerved sui bilanci 2018 di quasi 720mila aziende, secondo cui i rischi maggiori riguardano le imprese di dimensioni più piccole. I numeri allarmanti del rapporto ci danno l’occasione per riflettere sulla necessità, per le aziende, di interpretare il cambiamento come opportunità di crescita.

Il termine ha sempre suscitato un po’ di paura. Perché storicamente a “turnaround” si associa un evento negativo. D’altra parte la traduzione alla lettera è “piano di risanamento e di ristrutturazione profonda di una azienda in crisi”.

Tuttavia, la Quarta rivoluzione industriale ha evidenziato che è tempo di (ri)leggere il fenomeno con occhi diversi e di considerare il cambiamento come un evento capace di modificare l’equilibrio dell’organizzazione, che non per forza deve essere associato a una crisi.

Boston Consulting Group definisce il “turn” come una “trasformazione” che non si lega solo alle aziende in stagnazione o in difficoltà. Anzi, il cambiamento è oggi una leva strategica di crescita nel lungo termine, che permette di sviluppare e di affinare capacità e competenze in uno scenario di profonda incertezza. Ma anche l’incertezza deve essere declinata rispetto a un’altra variabile.

“Nella grandi imprese le sfide principali sono le trasformazioni legate all’innovazione – non solo digital, dentro cui ci sono varie tematiche (per esempio: gestione clienti, comprensione delle dinamiche interne e delle richieste attraverso l’utilizzo dei Big data…) – all’ambiente e al cambio dei modelli operativi”, esordisce Francesco Leone, Managing Director e Partner nella sede di Milano, Node della practice Turn di BCG e autore del libro Unlock, come trarre vantaggio dalle avversità (Egea, 2019), pubblicazione che offre 20 autorevoli testimonianze di professionisti e manager che nel corso della loro carriera hanno affrontato e guidato trasformazioni profonde.

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Francesco Leone

Attenzione alla responsabilità sociale e ambientale

Sul fronte della modernizzazione dell’azienda, secondo Leone, è necessario richiamare il tema di “cambiamento dei processi e del modo di agire per essere più efficaci ed efficienti, con l’obiettivo di migliorare la capacità di previsione e pianificazione”.

Per quanto riguarda l’ambiente – su cui BCG ha di recente lanciato una practice che si occupa dell’impatto (ma anche delle opportunità) dei cambiamenti ambientali – è sempre più evidente la necessità di progettare con attenzione alla responsabilità sociale e ambientale.

“Le aziende saranno obbligate a intervenire sul proprio modello di business per adeguarsi alle richieste politiche e sociali rispetto alle emissioni e al cambiamento climatico”, argomenta il manager. Questi temi, infatti, hanno un legame diretto sul business e il mancato rispetto, per esempio, del contenimento dell’innalzamento della temperatura entro il 2050 potrebbe dare vita a scenari molto drammatici, anche dal punto di vista economico: gli esperti stimano che l’aumento del riscaldamento globale potrebbe condurre al collasso di numerosi ecosistemi terrestri.

Diverso il caso delle Piccole e medie imprese (PMI) italiane che, come è noto, costituiscono il tessuto economico del nostro Paese. Due sono i fattori principali che incidono sullo sviluppo e la crescita delle PMI, secondo Leone.

“In primo luogo, la capacità di fare sistema: in Italia sono numerose le piccole realtà di valore, ma è tipicamente difficile farle lavorare insieme per trasformarle in eccellenze di livello internazionale. La seconda sfida è il cambiamento di mentalità imprenditoriale: fare cultura d’impresa e costruire le condizioni di collaborazione significa porre le basi di un cambiamento utile non solo quando l’organizzazione non avrà più alternative, bensì che consenta di governare un contesto di evoluzione continua”.

Affrontare le sfide con obiettivi a lungo termine

Insomma, le aziende vivono in un ecosistema nel quale il turnaround è inevitabile. Il problema, però, è che nella maggior parte dei casi, come riferisce Leone, “il cambiamento si attiva come reazione a una situazione di discontinuità”.

Secondo la visione di BCG, alla base del concetto di turn c’è la free empty transformation: “Bisogna sempre prevenire la difficoltà, vivere in una perenne condizione di cambiamento mentale, pensare sempre che quello che si fa possa essere modificato, migliorato e adattato alle esigenze del contesto”. Da qui la vera domanda che, nell’attuale scenario socio-politico-economico, le imprese devono porsi: “Oggi sono in grado di cambiare?”.

“Applicare un modello di cambiamento costante, cioè essendo in grado di anticipare le situazioni di complessità, permette alle aziende di agire con prontezza e quindi di guadagnare in competitività, conquistando quote di mercato proprio perché si creano le condizioni per superare le crisi più agevolmente rispetto a chi le subisce e che di conseguenza si attiva solo nelle situazioni di emergenza”, prosegue Leone.

Dalla loro le PMI hanno alcuni punti di forza su cui fare leva per affrontare le sfide. Come suggerisce il manager, le imprese più piccole hanno “ottime risorse a disposizione” e si affidano spesso a persone che “fanno succedere le cose”. E l’imprenditore ne è un chiaro esempio.

“Il punto fondamentale riguarda la visione: il rischio è di rimanere ancorati all’oggi senza occuparsi veramente del futuro”, ragiona Leone, che invita a ‘giocare’ la sfida rispetto alla variabile tempo agendo su due aspetti: il primo riguarda la gestione immediata del problema, cui affiancare il disegno del cambiamento operativo per revisionare il modello organizzativo.

“Concentrarsi solo sul presente è come agire sul sintomo, mentre alle aziende serve un percorso riabilitativo”, sintetizza il manager, suggerendo di affrontare il cambiamento in modo completo e con uno sguardo a lungo termine.
Certo si deve pur ammettere che l’Italia, nonostante le moltissime eccellenze, è sfavorita dal contesto che spesso ha fatto da freno alla crescita di molte imprese, in particolare sul mercato internazionale. Ma non mancano neppure nel nostro Paese numerose aziende che, dopo aver affrontato un periodo di difficoltà e una riduzione strutturale, hanno saputo rilanciarsi, nonostante l’ecosistema non le agevoli.

I manager come guida del cambiamento

In una condizione di cambiamento continuo non è possibile indicare quale funzione debba dare l’orientamento al turnaround, che diventa un tema cross-funzionale in grado di catalizzare l’interesse di tutti gli ambiti aziendali.

Tuttavia, come fa notare Leone, a fare la differenza è il fattore umano e la capacità dei manager di gestire le persone. “Nei turnaround i manager hanno tre responsabilità: devono avere il coraggio di decidere e agire (e di sbagliare!), perché non basta disegnare i modelli, serve anche renderli concreti; devono essere fermi nel proseguire le azioni decise, in quanto il percorso di cambiamento non è mai semplice, in particolare nelle situazioni di crisi finanziaria; infine devono dare l’esempio, maturando la capacità di farsi seguire dall’intera organizzazione”, spiega Leone.

In Italia, però, la presenza di manager nelle aziende – in particolare quelle più piccole – è ancora limitata. Nel nostro Paese, infatti, la dimensione contenuta delle imprese fa sì che nei ruoli decisionali ci siano (spesso) persone appartenenti alla famiglia imprenditoriale. In alcuni casi è noto che questo assetto funzioni senza difficoltà; in altri, invece, le aziende rischiano di attraversare momenti di discontinuità, soprattutto nelle fasi di cambio generazionale.

“La managerializzazione delle imprese è un fenomeno importante e delicato”, commenta Leone. “Non si tratta solo trovare il manager giusto, ma anche di lasciargli lo spazio di azione; non è inusuale che ci siano diversità di vedute con l’imprenditore e quindi è fondamentale che sia chiara la distinzione tra azionisti, Consiglio di amministrazione e manager affinché i ruoli non si sovrappongano.

Il rischio? È che ci siano troppi ostacoli a frenare l’azione di cambiamento di chi arriva dall’esterno”. In alcuni momenti di discontinuità o di gestione di uno scenario particolarmente sfidante può, però, essere più idoneo affidarsi a un advisor esterno che porti competenze da altri settori, nuove esperienze e visione e che aiuti l’imprenditore o l’azionista ad ampliare la visione aziendale.

Scegliere la soluzione migliore non in senso assoluto

Oltre a manager e advisor esterni, ci sono alcune linee guida che possono trasformarsi in utili bussole per orientarsi in questa fase di scenario incerto. Secondo Leone si deve partire “dall’allineamento e consolidamento della prima linea di business rispetto alla pianificazione e al coordinamento del turnaround”; in questo gioca un ruolo fondamentale il fattore tempo perché, come anticipato, “l’azione preventiva – e non reattiva – condotta con la corretta priorità, eseguita in tempi rapidi, fa la differenza per generare successo”.

Il manager di BCG non nasconde che proprio questo aspetto complichi le cose in Italia dove il tempo di esecuzione dei piani è tendenzialmente più dilatato. “La caratteristica più importante è il fattore umano, vale a dire la capacità di gestione e di responsabilità della guida”.

Tutto questo deve conciliarsi con il modello organizzativo, fondamentale per rendere sostenibile il turnaround. “Il modello prende forma dalle leve strategiche che l’azienda decide di attivare per rispondere alle esigenze del mercato”, precisa Leone. Il modello si lega al tema delle competenze che, se non già presenti nell’organizzazione, possono essere introdotte dall’esterno.

A ostacolare il processo di cambiamento, secondo il manager di BCG, è “l’incertezza del contesto”, che inficia anche sulla velocità di trasformazione. “I rallentamenti interni derivano anche dalla cultura e dalla mentalità dell’organizzazione”, ammette Leone, secondo cui il “cambiamento dovrebbe far parte del Dna di un’impresa”.

Tuttavia, a volte chi ha il potere decisionale può faticare ad accettare la necessità di cambiare, preferendo il rifugio nella comfort zone e concentrandosi – inutilmente – sui problemi marginali. Poi c’è da fare i conti con le sfide legate al libero mercato, che impone di cambiare modelli in una cornice fatta da vari attori, per esempio i fornitori e i meccanismi contrattuali.

“Tutto ciò che in un cambiamento richiede una componente negoziale potenzialmente può ritardarlo”, taglia corto Leone, proponendo, però, una ‘soluzione’: “Non bisogna trovare la situazione migliore in assoluto, ma quella migliore per affrontare, di volta in volta, un percorso, superarlo per poi passare alla fase successiva”.

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Dario Colombo

Articolo a cura di

Giornalista professionista e specialista della comunicazione, da novembre 2015 Dario Colombo è Caporedattore della casa editrice ESTE ed è responsabile dei contenuti delle testate giornalistiche del gruppo. Da luglio 2020 è Direttore Responsabile di Parole di Management, quotidiano di cultura d'impresa. Ha maturato importanti esperienze in diversi ambiti, legati in particolare ai temi della digitalizzazione, welfare aziendale e benessere organizzativo. Su questi temi ha all’attivo la moderazione di numerosi eventi – tavole rotonde e convegni – nei quali ha gestito la partecipazione di accademici, manager d’azienda e player di mercato. Ha iniziato a lavorare come giornalista durante gli ultimi anni di università presso un service editoriale che a tutt’oggi considera la sua ‘palestra giornalistica’. Dopo il praticantato giornalistico svolto nei quotidiani di Rcs, è stato redattore centrale presso il quotidiano online Lettera43.it. Tra le esperienze più recenti, ha lavorato nell’Ufficio stampa delle Ferrovie dello Stato italiane, collaborando per la rivista Le Frecce. È laureato in Scienze Sociali e Scienze della Comunicazione con Master in Marketing e Comunicazione digitale e dal 2011 è Giornalista professionista.

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