L’altra faccia del Covid

La mia è stata una quarantena a metà. Abito accanto all’ufficio, la mattina sono sempre uscita per rientrare all’ora di pranzo, in tempo per sedermi a tavola con i miei ragazzi. Il pomeriggio l’ho passato alla scrivania di casa. Non avevo mai condiviso così tanto tempo con i miei figli. Non sono mai stata a casa con loro quando rientravano da scuola. Un ritmo accelerato fatto di tante notti passate fuori casa, telefonate la sera tardi per accertarsi che tutto fosse a posto e la mattina presto per scongiurare il pericolo che la sveglia non fosse suonata e saltassero la scuola.

Gli anni sono passati veloci e, all’annuncio del lockdown, mi sono trovata in casa con un ragazzo intanto a scrivere la tesi e il fratello a gestire le lezioni universitarie online. I primi giorni eravamo disorientati. Gli aiuti erano venuti a mancare e, al primo segnale di disordine, partivo all’attacco con la sfuriata d’ordinanza. Ho capito subito che quella non sarebbe stata la strada giusta e che avrei dovuto mettere da parte le ansie da casalinga disperata.

Non sono stata capace di imporre regole ferree, ma una divisione dei compiti ce la siamo data. Senza discutere la lavapiatti veniva svuotata, la pattumiera portata giù, l’aspirapolvere passato da ognuno nella propria camera. Negli spazi comuni no, ma va bene così. Ai pranzi trangugiati cercando di carpire informazioni –quando fai il prossimo esame, stasera mangi a casa, con chi esci– abbiamo lasciato spazio a conversazioni meno ‘di servizio’: come stiamo, come gestiamo gli impegni, come ce la caviamo con zoom…

Rimanere a casa il pomeriggio e non poter dedicare l’ora serale alla corsa mi ha permesso di arrivare all’ora di cena con menu meno improvvisati, evento molto apprezzato dai miei coinquilini. Che per la verità negli ultimi anni erano raramente a casa, la cena tutti insieme era un evento raro. Ognuno aveva la sua vita, l’aspirante biotecnologo in un’altra città e il quasi filosofo tutte le sere agli allenamenti di basket; condizioni che avevano di fatto di me una mamma parzialmente esonerata dal provvedere alle esigenze quotidiane.

Poi ci siamo ritrovati tutti qui, e devo ammettere che la convivenza, se pur forzata, mi è piaciuta. È come se mi fosse stato restituito il tempo che i ritmi frenetici della vita mi avevano sottratto in questi anni. Inevitabile domandarsi come sarebbe andata se invece di scegliere una dimensione imprenditoriale avessi deciso di lavorare di meno. Come sarebbe stato se fossi stata più tempo a casa, pronta a preparare caffè e merende? I miei figli sarebbero stati più sereni? Il meno studioso si sarebbe applicato di più?

I comportamenti dei figli con madri più presenti non inducono a pensare che per loro sarebbe stato meglio. In realtà, in base a ciò che ho osservato relativamente ai comportamenti dei ragazzi, è possibile che invece che il lavoro fuori casa, alla lunga, induca una maggiore responsabilizzazione.

Comunque sia, se non avessi un lavoro, o se in questi anni avessi optato per un lavoro più flessibile, e quindi precario, che prospettive avremmo ora? Premesso che questa emergenza sanitaria sta togliendo certezze a tutti, e noi non siamo certo fuori pericolo, il Covid ci ha sbattuto in faccia un’evidenza: rinunciare all’indipendenza economica è un rischio che le donne non si possono permettere. Il lavoro, se c’è, va mantenuto.

Ora però per le donne si affaccia una stagione difficile: il remote working le ha confinate in casa e, per molte, il rientro al lavoro è incerto. Ma non c’è un destino inevitabile, ci ha detto Luisa Pogliana in apertura del PDM Talk del 15 maggio.

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Anche ora che le scuole non riapriranno non dobbiamo accettare come unica soluzione l’allontanamento dall’organizzazione. Lavorare da casa non è la stessa cosa: le decisioni importanti si prendono in azienda, magari in momenti informali e le donne ci devono essere. Ce lo ha spiegato Marilena Ferri, che ci ha messo in guardia: se si è fuori dall’azienda, si fa più fatica a farsi sentire. Le donne devono essere più coraggiose e farsi avanti: se allattare in ufficio è una scelta estrema, che sfida il ruolo –e Anja Puntari sottolinea di averlo potuto fare perché inserita in un piccolo contesto organizzativo– è anche vero che le nostre azioni creano precedenti positivi. Il rischio che il remote working si traduca in una grande prova generale per tagliare i costi e aumentare l’emarginazione, c’è. E Michela Spera lo ha sottolineato. Ma le donne devono avere il diritto di coltivare le loro ambizioni, dice Paola Pomi. L’ambizione è la metafora di un viaggio e, raggiungere mete lontane, è una possibilità alla quale non dobbiamo rinunciare solo perché immersi in una cultura che costruisce recinti. Gli spazi ci sono, bisogna trovare il coraggio per occuparli.

Luisa Pogliana, Marilena Ferri, quarantena, remote working, Paola Pomi, Anja Puntari, Michela Spera


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Chiara Lupi

Articolo a cura di

Chiara Lupi ha collaborato per un decennio con quotidiani e testate focalizzati sull’innovazione tecnologica e il governo digitale. Nel 2006 ha partecipato all’acquisizione della ESTE, casa editrice storica specializzata in edizioni dedicate all’organizzazione aziendale, che pubblica le riviste Sistemi&Impresa, Sviluppo&Organizzazione e Persone&Conoscenze. Dirige la rivista Sistemi&Impresa e governa i contenuti del progetto multicanale FabbricaFuturo sin dalla sua nascita nel 2012. Si occupa anche di lavoro femminile e la sua rubrica "Dirigenti disperate" pubblicata su Persone&Conoscenze ha ispirato diverse pubblicazioni sul tema e un blog, dirigentidisperate.it. Nel 2013 insieme con Gianfranco Rebora e Renato Boniardi ha pubblicato il libro Leadership e organizzazione. Riflessioni tratte dalle esperienze di ‘altri’ manager. Nel 2019 ha curato i contenuti del Manuale di Sistemi&Impresa Il futuro della fabbrica.

Chiara Lupi


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