L’anno sabbatico è da boomer?

C’è una frase, che potrebbe pronunciare un qualsiasi datore di lavoro Over 50 in Italia, che riassume verosimilmente la cultura nostrana rispetto all’anno sabbatico: “È solo una perdita di tempo per rimandare l’ingresso nel mondo del lavoro”. Da qui si capisce perché la pratica – chiamata gap year nel mondo anglosassone – non è così diffusa, almeno nel nostro Paese. Più di un italiano su due vorrebbe infatti concedersi un periodo sabbatico e partire, come emerge da recente un sondaggio condotto dal portale online di affitti brevi Airbnb, che però rivela anche come l’89% delle persone intervistate in Italia non l’abbia mai fatto.

In realtà, però, la normativa italiana lo prevede e lo regola attraverso la Legge 53 del 2000, il provvedimento che prevede diversi tipi di congedo, tra cui quelli per maternità a quelli per la formazione. L’anno sabbatico è infatti definito come “una astensione volontaria e non retribuita dal lavoro” per un periodo di 11 mesi o più, durante il quale “il dipendente conserva il posto di lavoro, non ha diritto alla retribuzione e non può svolgere alcuna attività lavorativa”. È noto anche quello richiesto per motivi di studio, soprattutto in ambito universitario: per dedicarsi a esclusiva attività di ricerca, non è raro che docenti e ricercatori degli atenei italiani lo utilizzino, nei limiti del periodo complessivo non superiore a due anni accademici in un decennio e non sia usato oltre il 35esimo anno di anzianità di servizio.

In anni recenti a far uso del gap year sono stati gli studenti neodiplomati prima degli studi universitari si prendono un anno di pausa; un’abitudine che deriva probabilmente dal Grand Tour, il viaggio nell’Europa continentale intrapreso dai giovani aristocratici europei e statunitensi a partire dal XVIII secolo. Questo periodo durava circa 12 mesi e l’obiettivo era conoscere la politica, la cultura, l’arte e le antichità dei Paesi europei. Alcune università degli Usa, come Harvard, incoraggiano addirittura i futuri studenti a sfruttare questo tempo loro concesso e a tornare sui libri solo trascorso l’anno.

In un sondaggio condotto dall’American Gap Association in collaborazione con la Temple University, è emerso che gli studenti che hanno beneficiato di un anno sabbatico sono cresciuti sotto il profilo personale (98%), hanno aumentato la fiducia in sé stessi (96%) e aumentato le capacità comunicative (93%). Gli studenti sono stati spinti da questa decisione per fare nuove esperienze (92%), per viaggiare e conoscere nuove culture (85%) e per fare una pausa dal percorso di studi (82%). La metà dei ragazzi inoltre, si è impegnata in un percorso di volontariato.

Difficile poter sostenere economicamente un anno sabbatico

Ma non ci sono solo studenti e professori a prendersi del tempo da dedicare a varie attività. Per esempio, in Svezia, i dipendenti con contratto a tempo indeterminato hanno il diritto di richiedere un periodo sabbatico di sei mesi per realizzare un proprio progetto, viaggiare, dedicarsi allo studio di una lingua o di una particolare materia; allo scadere del tempo, tornano in azienda e riprendono il proprio percorso dove lo avevano lasciato.

E in Italia? Come è letto questo periodo dagli esperti della Direzione del Personale se è inserito nel curriculum vitae? “Ormai capita sempre di più di vedere ‘pause’ più o meno lunghe legate al cambio di carriera: è difficile affermare che siano realmente anni sabbatici”, spiega Giulio Natali, Group Chief HR & Organization Officer di Fater, azienda che opera nel mercato dei prodotti assorbenti per la persona in Italia e nei prodotti detergenti per la pulizia dei tessuti e della casa in 38 Paesi.

I motivi delle ‘pause’ cui fa riferimento il manager – secondo la sua esperienza – sono spesso legati a ridimensionamenti dell’organico, a licenziamenti individuali o a situazioni che non sono sempre volute dal dipendente. “Possono esserci anche contesti in cui la persona fa una scelta ‘forzata’ per un certo periodo e questo purtroppo riguarda in particolare le neo madri, che mettono in ‘pausa’ il lavoro per motivi familiari. In sostanza, oggi è difficile potersi permettersi un anno sabbatico nel vero senso del termine”, sottolinea Natali.

Le nuove generazioni puntano al benessere personale

Da rilevare, tuttavia, c’è che un tempo i gap lavorativi in Italia erano considerati in modo nettamente peggiore rispetto a quanto accade oggi. Negli Anni 90, ricorda Natali, molti datori di lavoro sospettavano che ci fosse qualche motivo grave e taciuto per prendersi una pausa oppure si presupponeva che il candidato non avesse troppa voglia di lavorare; addirittura si pensava che non sapesse organizzarsi e gestire gli impegni di lavoro e della famiglia. “Attualmente, invece, la situazione è analizzata con maggiore distacco – almeno dalle aziende serie – e non ci sono pregiudizi di questo tipo sui candidati”. Oggi, infatti il grande tema è la gestione del work-life balance e un’azienda deve tenere conto anche di questi aspetti, come dimostra la ricerca globale Definire il successo recentemente svolta da Accenture, che ha dimostrato che in cima alle attuali priorità dei lavoratori di ben 33 Paesi del mondo ora non c’è lo stipendio – come si potrebbe immaginare in tempi in cui si fatica ad arrivare a fine mese – ma conta di più il work-life balance.

Pensando alle nuove generazioni, inoltre, per il Group Chief HR & Organization Officer di Fater è molto probabile che in futuro ci saranno molti ‘alti e bassi’ di carriera, cioè momenti in cui qualcuno deciderà di prendersi un periodo di riflessione tra un lavoro e l’altro oppure di lasciare il lavoro da dipendente per diventare libero professionista e viceversa (come sta già succedendo con il fenomeno della Great resignation). L’esodo dei giovani (cioè la generazione Z) dal posto di lavoro ha generato infatti nell’ultimo anno un boom di dimissioni volontarie negli Stati Uniti, cogliendo impreparate il 75% delle aziende americane.

“Ci sarà chi fa il consulente che poi sceglie di fare l’imprenditore o chi si prenderà tempo per girare il mondo prima di lanciare una startup”, è il pensiero di Natali. Il vero anno sabbatico, infatti, non è mai stato solo una vacanza, bensì parte integrante della formazione. Forse, quindi, con il nuovo concetto di lavoro ibrido, non è detta l’ultima parola sulla ‘morte’ dell’anno sabbatico.

Giulio Natali, anno sabbatico, gap year


Elisa Marasca

Elisa Marasca

Elisa Marasca è giornalista professionista e consulente di comunicazione. Laureata in Lettere Moderne all’Università di Pisa, ha conseguito il diploma post lauream presso la Scuola di Giornalismo Massimo Baldini dell’Università Luiss e ha poi ottenuto la laurea magistrale in Storia dell’arte presso l’Università di Urbino. Nel suo percorso di giornalista si è occupata prevalentemente di temi ambientali, sociali, artistici e di innovazione tecnologica. Da sempre interessata al mondo della comunicazione digital, ha lavorato anche come addetta stampa e social media manager di organizzazioni pubbliche e private nazionali e internazionali, soprattutto in ambito culturale.

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