Flexible work

Meglio flessibili che smart worker

Il mondo del lavoro italiano si trova ormai da decenni in una situazione di fragilità a causa di un’elevata disoccupazione giovanile, di una curva della produttività per ore lavorate rimasta piatta dal 1990 a oggi, unitamente agli stipendi, cresciuti solo dello 0,36% (dato Ocse). Oggi il valore del Pil per ora lavorata è intorno ai 42 euro, contro i 58 euro della Germania, nonostante il monte ore lavorate per occupato sia tra i più alti in Europa (nel 2021 in Italia 1.668, contro 1.349 della Germania o i 1.490 della Francia). A conseguenza di ciò, il nostro Paese sta diventando sempre meno attrattivo per i giovani lavoratori: nell’ultimo anno, l’8% dei laureati ha deciso di emigrare all’estero dove la paga media è superiore del 41.8%; questo fenomeno costa al Paese l’1% del Pil ogni anno, circa 600 miliardi di euro in 10 anni (ilsole24ore).

Unitamente alle difficoltà sul lato dell’offerta di lavoro, anche la domanda è influenzata da esigenze e necessità dei lavoratori italiani profondamente cambiate e in continua evoluzione. La crisi pandemica è stata poi determinante nel porre le basi per riflettere su nuove modalità di lavoro, mettendo in luce nuovi paradigmi, tra cui la condivisione di princìpi valoriali e priorità.

In questo contesto, il concetto di flessibilità diviene imprescindibile nei luoghi di lavoro: i lavoratori tendono a ricercare un ambiente lavorativo flessibile che riesca a porre al centro l’equilibrio tra lavoro e vita privata. Proprio la carenza di un corretto work-life-balance è oggi motivo valido per cambiare lavoro e ricercare nuove opportunità. Sempre più frequenti sono i fenomeni di Great resignantion, Quite quitting e Job hopping che dal continente americano, nel quale sono nati, raggiungono le coste europee. Con Great resignation viene identificato il fenomeno delle dimissioni volontarie che a seguito della pandemia ha interessato una percentuale sempre più elevata di collaboratori.

In Italia, solo nel 2021, le dimissioni volontarie sono cresciute del 43%, con circa 484mila lavoratori che hanno lasciato il proprio lavoro autonomamente. Il motivo principale, secondo i dati del Ministero del Lavoro è proprio l’esigenza di una maggiore flessibilità. Al contrario, il Quite quitting descrive la tendenza dei dipendenti a eseguire il minimo indispensabile, ponendo dei limiti all’orario lavorativo per ricavare abbastanza tempo per tutto ciò che riguarda la loro vita privata, senza tuttavia ricorrere alle dimissioni. L’obiettivo di assicurarsi un corretto work-life-balance è poi estremizzato nel concetto di Job hopping, pratica che consiste nel saltare da un lavoro a un altro per assicurarsi proprio tale scopo, oltre a una più alta remunerazione.

Tali princìpi e priorità, tipiche dell’attuale contesto lavorativo, sono condivisi anche da chi nel mondo del lavoro è prossimo a entrare. Le nuove generazioni e, in particolare, i giovani della Gen Z riconoscono a loro volta un importante valore in un corretto work-life balance e nel concetto di flessibilità. Il 64% della Gen Z preferirebbe iniziare la propria carriera lavorativa in un ambiente poco gerarchico e flessibile, che metta l’individuo e le sue esigenze al centro, che presti particolare attenzione alla salute fisica e mentale, con elevato rispetto della vita privata e un buon equilibrio tra lavoro e tempo libero, dato confermato per studenti di diverse aree disciplinari (dati Cetif).

Allo stesso modo, la percentuale di coloro che ritengono un ambiente di lavoro flessibile come imprescindibile cresce tra i laureati Stem della generazione precedente, quella dei Millennial (70%), contro il 54% dei Millennial laureati non Stem (dati Cetif). Le aziende si trovano attualmente davanti a un grande interrogativo: come si risponde alla crescente richiesta di flessibilità? Come si concilia la flessibilità con la produttività e un possibile aumento della stessa?

Smart working e settimana corta non sono strumenti risolutivi

La risposta più scontata sembrerebbe essere quella di insistere sullo Smart working. Tuttavia, quando si parla di Smart working è bene mettere in chiaro alcuni elementi. In primis, esso non è sempre sinonimo di flessibilità, se non accompagnato da un adeguato cambiamento di mindset, cultura e leadership. Quindi, il rischio è che lo Smart working possa risultare un fenomeno di remotizzazione delle attività dove l’unica innovazione nell’ambito della flessibilità è relativa al luogo di lavoro. Le nuove generazioni ritengono che le aziende che consentono più flessibilità siano quelle più attrattive; invece, la maggior parte di Millennial (nel 56% dei casi) e di Gen Z (nel 64%) considera lo Smart working solo un nice to have, piuttosto che un elemento imprescindibile ed essenziale.

Unitamente allo Smart working, la settimana lavorativa corta sta divenendo una delle soluzioni che sembra possa risolvere gli annosi problemi del mercato del lavoro italiano, dalla bassa produttività, alla flessibilità ricercata dalle nuove generazioni. In Europa, diverse sono le sperimentazioni a riguardo. L’Islanda, per prima, ha diminuito le ore lavorative nel settore pubblico da 40 a 35 settimanali, mentre in Italia, di recente, Intesa Sanpaolo ha deciso di far partire una sperimentazione, comprimendo le ore settimanali, divenute 36 totali (nove ore al giorno), su quattro giorni lavorativi, congiuntamente a quattro mesi di full Smart working.

I risultati dei primi esperimenti sono interessanti: in termini di produttività non vengono segnalate alterazioni (dati della ricerca di 4 Day Week Global) e la soddisfazione dei lavoratori è elevata (90% di lavoratori che hanno sperimentato la settimana corta continuerebbe a lavorare quattro giorni su sette).

Visti i dati del mercato del lavoro italiano, la settimana corta potrebbe essere una risposta alle nuove esigenze lavorative in termini di flessibilità, ma non sembra, ad oggi, poter essere (da sola) la panacea di tutti i mali. Per esempio, è possibile che una riduzione dei giorni lavorativi possa produrre un aumento della produttività per ore lavorate, come una quasi esclusiva conseguenza della diminuzione delle stesse ore lavorate totali, non risolvendo problemi di produttività strutturali.

Dunque, se Smart working (come svolto fino a oggi) e settimana corta sembrano non risolvere pienamente le necessità dei lavoratori e quelle delle aziende in termini di produttività e flessibilità, sarebbe utile cominciare ragionare su altre possibili soluzioni.

L’articolo integrale è pubblicato sul numero di Luglio-Agosto 2023 di Persone&Conoscenze.
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