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Partecipare è fare impresa, cosa resta di Olivetti a 60 anni dalla morte

In questi giorni dominati dall’interesse per il coronavirus, come quotidiano di una casa editrice la cui mission è diffondere cultura d’impresa, non possiamo dimenticare che il 27 febbraio 2020 ricorrono i 60 anni dalla scomparsa di Adriano Olivetti. Per ricordare l’imprenditore che ancora oggi è fonte di ispirazione per tanti uomini di impresa e manager (direi su ogni tema!) riproponiamo alcuni passaggi di una recente intervista di Chiara Lupi a chi Olivetti l’ha conosciuto avendo lavorato nell’azienda di Ivrea.

Federico Butera, Professore Emerito di Scienze dell’Organizzazione, Università di Milano Bicocca e di Roma Sapienza, Direttore di Studi Organizzativi, Presidente Fondazione Irso (Istituto di Ricerca Intervento sui Sistemi Organizzativi) e membro del Comitato Scientifico della rivista Sviluppo&Organizzazione, ha raccontato come Olivetti, per esempio, si interrogasse sulla Responsabilità sociale dell’impresa.

“L’impresa può avere un’anima? Se lo chiedeva Adriano Olivetti”, ricorda Butera nell’intervista, spiegando come l’ispirazione dell’imprenditore lo abbia poi guidato in alcuni dei suoi studi successivi. “Lavorai a partire dagli Anni 90 su questa domanda, cercando di superare la nozione riduttiva della Responsabilità sociale d’impresa. Condussi nel 2000 una ricerca su incarico di Ivano Barberini della Lega Coop e proposi il concetto di impresa integrale definita come l’impresa che persegue in modo integrato elevate performance economiche e sociali, che agisce concretamente per proteggere e sviluppare l’integrità degli stakeholder e dell’ambiente fisico, economico e sociale, che ha condotte eticamente integre”.

Questo è però solo un aspetto dell’esperienza di Butera, che con Lupi ha ripercorso il suo periodo olivettiano.

Una nuova organizzazione del lavoro manifatturiero flessibile

Ho iniziato lavorando sei mesi come operaio alla catena di montaggio e alle officine, e questa è stata l’esperienza che più ha influenzato il mio percorso professionale. Ho lavorato poi alla Direzione del Personale con Paolo Volponi dove sono diventato prima Responsabile del Personale dei montaggi, poi degli stabilimenti di Agliè e Scarmagno, quindi Responsabile della Selezione dei laureati per tutto il Gruppo […] La nomina a dirigente è arrivata a 28 anni. Quando Luciano Gallino andò via, mi chiesero di sostituirlo come Direttore del Servizio di Ricerche Sociologiche e Studi sull’Organizzazione (SRSSO).

Olivetti era un’azienda di 40mila dipendenti che aveva avuto uno sviluppo formidabile, ma che aveva subito lo scippo della grande elettronica e che, a causa della concorrenza delle macchine elettroniche giapponesi, si trovava di fronte all’obsolescenza della sua tecnologia di base, di prodotto e produzione: dai pezzi di ferro occorreva passare ai chip.

Ebbi l’incarico di studiare il passaggio dalla meccanica all’elettronica. Ricercammo su quello che avveniva in azienda, studiammo quanto accadeva nel mondo insieme con i manager e tecnici della produzione. Scoprimmo che era possibile sviluppare una modalità produttiva flessibile che i tecnici di fatto stavano già sperimentando e preparai un report.

Il Direttore di Produzione Gribaudolo lesse, mi chiamò alle 20 a casa (cosa che un gentiluomo piemontese non fa mai) e mi chiese: “Butera, ma è vero che noi stiamo facendo queste cose?”. Gli risposi: “Si, ma non avete capito il significato e le implicazioni di questi esperimenti”. “Venga domani mattina alle 8”.

Così partì un progetto di Change management strutturale, come poi lo avrei chiamato. Smontando le lunghe catene di montaggio e costituendo isole di produzione: nacquero le isole di montaggio, le UMI (Unità di Montaggio Integrate), che divennero un nuovo modo di produzione, partecipato dal sindacato, con un imponente programma di formazione degli operai, quadri e dirigenti. L’Olivetti sopravvisse mentre l’Olimpia, il suo competitor più grande, chiuse.

Nel 1971 andai a Cambridge in Massachusetts a studiare al MIT e ad Harvard: feci un lungo viaggio in Usa coast to coast visitando aziende e università, scrissi I frantumi ricomposti, un libro che mostrava che il taylor-fordismo si poteva superare. Questo libro ebbe successo. Risale a quegli anni un mio articolo dedicato alle trasformazioni organizzative in Olivetti che è stato tradotto in sette lingue: il nuovo sistema produttivo basato sui gruppi di produzione acquistò notorietà internazionale insieme con quello della Volvo, dell’IBM e altri.

Nel 1973 mi dimisi dalla Olivetti per una visione degli sviluppi organizzativi antitetica a quella dell’Amministratore Delegato, l’Ammiraglio Ottorino Beltrami. Avevo due figli e lasciare Olivetti sembrò una follia, ma una logica c’era. L’esperienza Olivetti conteneva un’idea forte applicabile a tutta l’industria italiana: ossia una nuova organizzazione del lavoro manifatturiero flessibile e basato sulla professionalità individuale e di gruppo, sviluppata con la partecipazione dei lavoratori e delle rappresentanze, come stava avvenendo in Germania e Scandinavia in cui Mittbestimmung e Industrial Democracy si erano sviluppati a partire da progetti esemplari. Questo piaceva all’IRI e alla Cisl, ma non alla Fiat, a Confindustria e alla Cgil di allora, tranne che a Bruno Trentin. Pensai che avrei potuto disseminare l’esperienza Olivetti.

L’articolo è liberamente tratto dall’intervista di Chiara Lupi a Federico Butera dal titolo La missione degli studi e della progettazione organizzativa: il futuro ha un cuore antico, pubblicata sul numero 287 di Sviluppo&Organizzazione.
Per informazioni sull’acquisto di copie e abbonamenti scrivi a daniela.bobbiese@este.it (tel. 02.91434400)

change management, corporate social responsibility, Olivetti, Federico Butera, progettazione organizzativa


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Chiara Lupi

Articolo a cura di

Chiara Lupi ha collaborato per un decennio con quotidiani e testate focalizzati sull’innovazione tecnologica e il governo digitale. Nel 2006 ha partecipato all’acquisizione della ESTE, casa editrice storica specializzata in edizioni dedicate all’organizzazione aziendale, che pubblica le riviste Sistemi&Impresa, Sviluppo&Organizzazione e Persone&Conoscenze. Dirige la rivista Sistemi&Impresa e governa i contenuti del progetto multicanale FabbricaFuturo sin dalla sua nascita nel 2012. Si occupa anche di lavoro femminile e la sua rubrica "Dirigenti disperate" pubblicata su Persone&Conoscenze ha ispirato diverse pubblicazioni sul tema e un blog, dirigentidisperate.it. Nel 2013 insieme con Gianfranco Rebora e Renato Boniardi ha pubblicato il libro Leadership e organizzazione. Riflessioni tratte dalle esperienze di ‘altri’ manager. Nel 2019 ha curato i contenuti del Manuale di Sistemi&Impresa Il futuro della fabbrica.

Chiara Lupi


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