Rigenerare il sistema economico per aumentare i salari

Nell’articolo dal titolo “Salari bassi colpa della (poca) produttività” si è analizzata la situazione delle buste paga dei lavoratori, spiegando perché le retribuzioni restino al palo. Come si può quindi affrontare il problema dei salari troppo bassi e della loro crescita? Si tratta ovviamente di due obiettivi a leva temporale molto diversa. Il riuscire ad aumentare i salari minimi, per non aumentare la percentuale di famiglie al di sotto o vicine alla soglia di povertà, richiede azioni tampone e di breve termine.

Per garantirsi l’aumento dei salari medi in modo sostenibile occorre, invece, agire sul sistema economico in generale, ovvero generando una capacità di aumento del Prodotto interno lordo (Pil) da parte dello stesso. Non si può però rischiare di precludersi la leva del miglioramento del Pil bruciando tutte le risorse disponibili nelle azioni di tamponamento di breve termine.

Non entrando nel merito delle attività per arginare il problema dell’aumento della povertà, vorrei fare qualche considerazione su come si dovrebbe aggredire, invece, il tema dell’aumento del Pil pro-capite per poter aumentare i salari. Ho trattato questo tema in modo più articolato in altri momenti, ma ne riporto qui una sintesi qualitativa.

A tal riguardo occorre però fare una premessa: non va confuso l’aumento del Pil con il potenziamento della capacità di aumento del Pil. Con ciò intendo che un aumento del Pil ottenuto in modo forzato in un anno (tipo quello determinato dal superbonus edilizio) non aumenta la capacità di Pil del Paese: questo, infatti, sparirà nel momento in cui finanziamenti-facilitazioni relativi termineranno e si dovrà poi ovviamente accettare una riduzione del Pil nell’anno successivo. Diversa cosa è la capacità di aumento del Pil ottenuta attraverso un miglioramento consolidabile dei volumi e del valore di quanto si produce (aumento di produttività strutturale/consolidabile).

Turismo e Agrifood, le soluzioni per il breve termine

Sul breve termine, dovremmo implementare strategie verticali finalizzate al rapido sfruttamento del potenziale esistente. Tali opportunità vanno ricercate in particolare nei business che non richiedono significativi aumenti nel breve termine di scolarità, competenze e alfabetismo funzionale (deficit non recuperabili nel breve periodo), dove cioè tali fattori sono meno condizionanti. Si tratta di sfruttare meglio le aree dove abbiamo vantaggi competitivi di fatto indipendenti da quanto sopra, in quanto naturali o creati dai nostri avi. Dovremmo allora focalizzarci velocemente sul Turismo, che può contare su bellezze naturali e artistiche ben superiori a quelle dei Paesi concorrenti, e sull’Agrifood, dove abbiamo un patrimonio indiscutibile.

L’Agrifood rappresenta il 4% del Pil nazionale e il Turismo il 6%. Con il suo indotto, il Turismo rappresenta il 13% del totale Pil italiano, quasi come tutto il business manifatturiero (16%). Un incremento percentuale di tali business si traduce in un importante aumento totale. E non dovrebbe essere così difficile nel Turismo, visto l’esempio della Spagna che (con un minimo di strategia ad hoc), in pochi anni è riuscita a sorpassarci portandosi al secondo posto mondiale, con un numero di presenze superiore a noi del 30%. Da notare che, nello stesso periodo, l’Italia è scesa al quinto posto. È proprio la mancanza di una strategia efficace a riguardo (che invece la Spagna aveva attivato e ha tuttora) che ci ha fatto perdere tante posizioni.

Nel Turismo e nell’Agrifood, come detto, abbiamo vantaggi competitivi il cui potenziale è solo parzialmente limitato dalle mancanze cognitive della nostra forza lavoro (perché non richiedono elevate competenze tecnologiche, se non in alcuni anelli della filiera). Su queste due aree si tratta quindi di partorire e implementare velocemente efficaci strategie, con chiari obiettivi segmentati per target turistico (come ha fatto la Spagna).

Per riuscire a ottenere una capacità di aumento sistematico del Pil pro capite (su base strutturale), e quindi di possibile aumento dei salari, occorre agire su altre leve. Occorre, cioè, attivare strategie e azioni finalizzate al potenziamento e/o cambiamento dei nostri modelli di business, al fine di abilitarli a produrre maggior valore. Si tratta prevalentemente di strategie basate su servitizzazione, digitalizzazione e innovazione. Sarebbe però velleitario pensare di poter ottenere tale risultato solamente con strategie di tipo orizzontale (miglioramenti infrastrutturali e programmi generalizzati, tipo il già noto Industria 4.0). Occorrono anche strategie e azioni di tipo verticale, cioè finalizzate a sviluppare potentemente le capacità delle filiere esistenti a maggior potenziale di valore aggiunto, e soprattutto occorre incentivare lo sviluppo di nuove catene del valore e di nuovi modelli di business. È sicuramente da abbandonare la strategia di puntare in maggior misura sul Manufacturing, considerando che Italia e Germania (i Paesi occidentali con maggior contributo del manufacturing nel mix del Pil del Paese) sono quelli che più soffrono dell’attuale congiuntura internazionale. È così facendo che Paesi come la Svezia (con alta vocazione manufatturiera nel passato), sviluppando nuovi modelli di business basati su innovazione e nuovi servizi, sono riusciti ad aumentare notevolmente i loro Pil e salari (+63% dal 1990 per la Svezia, contro il nostro -2,9%)

Serve una nuova spinta imprenditoriale

Questi interventi, al fine di avere la massima efficacia e il ritorno nel tempo più breve possibile, dovrebbero essere molto mirati. Bisogna contestualmente incentivare la presenza di grandi aziende (anche attirando quelle multinazionali che abbiamo perso anni fa per un’ottusa politica fiscale). Esse sono le uniche in grado di rigenerare quelle economie di scala che possono avere un vero impatto sul Pil, sull’occupazione e sullo sviluppo dell’innovazione e delle competenze delle persone.

Non si può fare un’innovazione sufficiente ad aumentare il Pil con il solo contributo delle piccole imprese. A tal riguardo occorre anche recuperare una adeguata capacità e motivazione imprenditoriale, perché sembra proprio che l’abbiamo persa. Buona parte dei nostri imprenditori non dimostra oggi di avere molto interesse a crescere e, se lo fanno, è spesso per vendere l’azienda a qualche multinazionale, aumentando così la delocalizzazione dei fatturati e degli utili delle nostre imprese (e spesso anche dei suoi dipendenti).

Per il lungo termine, invece, dobbiamo recuperare i livelli di competenza degli italiani come livello di scolarità, alfabetismo funzionale e di competenze specifiche. Su quest’ultimo aspetto (competenze specifiche e tecnologiche), possono aiutare anche gli ecosistemi culturali e di business attivati dalle grandi multinazionali tecnologiche e dei servizi. Si noti, per inciso, che la staticità e il livello di concorrenzialità dei nostri servizi risultano essere al penultimo posto in Europa. In particolare, si rileva ancora una certa incapacità diffusa a capire i modelli di business basati sulla servitizzazione. Quest’ultima è stato il driver principale per lo sviluppo del valore dei servizi e del loro impatto sul Pil totale, e specialmente su quello pro capite, nei Paesi più industrializzati e a maggior crescita. Occorre assolutamente attivare subito un piano integrato (pubblico-privato) per il recupero di queste mancanze culturali e delle competenze, che rischiano di peggiorare ulteriormente la nostra competitività nei nuovi scenari di business.

L’articolo è la seconda parte della riflessione di Giorgio Merli sulle questioni produttività e salari bassi. La prima parte dell’articolo è titolata “Salari bassi colpa della (poca) produttività”.

servitizzazione, Agrifood, turismo, analfabetismo funzionale, Pil italiano


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Giorgio Merli

Giorgio Merli è autore di numerosi libri e articoli sul management pubblicati in Europa e negli Usa; è consulente di multinazionali e Governi, oltre che docente in diverse università in Italia e all’estero. È stato Country Leader di PWCC e di IBM Business Consulting Services

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