Salari bassi colpa della (poca) produttività

È inutile prenderci in giro. C’è poco da capire. Quando veniamo a sapere che un infermiere in Svizzera ha una retribuzione tripla rispetto a quella esistente in Italia, invece di scandalizzarci dovremmo tenere presente che il Prodotto interno lordo pro capite in quel Paese è pari a 95mila dollari, contro i 33mila delle nostre parti (cioè tre volte tanto). In generale, è quindi ovvio che gli stipendi in Svizzera possano essere il triplo di quelli italiani.

Lo stipendio di una mansione dipende dal valore prodotto dal Paese (Pil) e dal singolo. Per quanto riguarda il Pil, si può facilmente verificare che i salari medi europei sono di fatto proporzionali al prodotto pro capite degli stessi. Non a caso i nostri espatriati – a parità di scolarità – sono pagati molto di più all’estero, dove tale indicatore è più alto. Il motivo è che in questo Paesi ci sono modelli di business in grado di far generare più valore che da noi. In Italia, purtroppo, continuiamo a creare prodotti e servizi con valore molto più basso, che non danno quindi margini per aumenti salariali significativi.

Il problema di questo Paese (e delle sue aziende) è il non saper aumentare la sua produttività e il valore dei suoi prodotti-servizi. Siamo stati vittime di un’errata accezione del concetto di produttività: eravamo convinti che per aumentarla occorreva soprattutto aumentare l’efficienza e ridurre i costi produttivi (cioè agire sul denominatore) anziché aumentare il valore prodotto (cioè il numeratore). Com’è possibile che Francia e Germania, in 20 anni, abbiano aumentato il loro Pil del 25-30% rispetto al nostro, con un costo del lavoro superiore del 29%? Hanno semplicemente continuato ad aumentare il valore dei loro prodotti-servizi. E così ora noi consuntiviamo un Pil reale diminuito del 2%, mentre loro l’hanno aumentato del 26%…

La mancata innovazione nei prodotti e nei modelli di business

La nostra competitività negli ultimi 30 anni è calata rispetto a quasi tutti i Paesi occidentali (sia a livello di prodotti-servizi offerti sia di produttività). Si consideri che nel 2019 eravamo già crollati al 49esimo posto mondiale nel Pil pro-capite. Il fatto che come Pil nazionale totale (comunque nominale e non reale) siamo comunque ancora all’ottavo-nono posto è dovuto alle dimensioni economiche dell’Italia, ma quello che conta per il livello di vita possibile è determinato dai salari, che dipendono a loro volta dal Pil pro-capite. E qui purtroppo siamo messi davvero male.

Ma come mai siamo scesi così in basso? Come mai non riusciamo ad aumentare il Pil reale da decenni, mentre i Paesi concorrenti ci riescono? Ovviamente perché tali Paesi aumentano continuamente il valore di quanto producono, mentre noi continuiamo a creare prodotti e servizi producibili da Paesi a minor costo del lavoro. Per di più la nostra produttività è tornata al livello di quella del 1970 (in realtà non è mai migliorata significativamente, anche nei decenni successivi). Il problema è che non abbiamo sviluppato sufficienti volumi di prodotti e servizi innovativi.

Il maggiore gap rispetto agli altri Paesi di riferimento è nei servizi. Questi sono stati infatti la maggior leva di aumento del Pil di tali Paesi. In generale, non riusciamo a sviluppare sufficiente innovazione dei prodotti-servizi ma, soprattutto, non innoviamo i modelli di business. Nei servizi siamo al penultimo posto in Europa come concorrenza interna (e così il valore e la produttività degli stessi rimangono bassi e non crescono); nell’indice di concorrenza dei servizi siamo infatti sette volte peggio di Svizzera e Svezia e tre volte peggio della Germania.

Affrontare la piaga dell’analfabetismo funzionale

Per quanto riguarda il livello delle retribuzioni, va però anche considerato che questo dovrebbe essere correlato al potenziale di valore aggiunto che la persona può dare all’organizzazione presso la quale opera. Tale valore è determinato prevalentemente dalle competenze dei singoli. Per i neoassunti dipende quindi dal livello di scolarità; per gli altri, anche dalle loro competenze specifiche e capacità personali. E come siamo messi a riguardo rispetto agli altri Paesi? Rispetto alla scolarità siamo penultimi in Europa come numero di laureati (e ultimi in discipline economiche e scientifiche). La Svezia, per esempio, ne ha il doppio di noi e la Spagna il 70% in più. Situazione simile per i diplomati tecnici. In generale, è così per tutte le competenze che possono dare il maggior contributo all’aumento del Pil. Per quanto riguarda le capacità di base e le competenze, la situazione è forse ancora peggiore.

Il principale indicatore per valutare quanto una persona può contribuire a generare valore per la sua organizzazione – e a migliorarlo nel tempo – è forse quello individuato dall’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico (Ocse) come “alfabetismo funzionale”. Si tratta di un indicatore che di fatto valuta la capacità di una persona di interpretare intelligentemente dati numerici, di capire le relazioni causa-effetto e i nessi fra i fenomeni, di contribuire al miglioramento di ciò che fa. Purtroppo, a tal riguardo, nelle ultime indagini Ocse disponibili (che risalgono al 2003, cioè negli anni in cui abbiamo perso il ‘treno’ degli altri Paesi) risultiamo posizionati molto male. Nell’indicatore che valuta tale livello di alfabetismo (punteggio Ials, fonte: Piaac-Ocse) risultavamo persino agli ultimi posti su 180 Paesi esaminati. Un livello di analfabetismo funzionale addirittura doppio dei penultimi e comunque sette volte superiore a quello di Paesi come la Svezia (l’Italia risultava infatti avere il 47% di questo tipo di analfabeti funzionali contro il 7% della Svezia).

Non credo che siamo stati in grado di colmare tale gap negli anni successivi. È quindi lecito pensare che abbiamo ancora circa metà della popolazione da cui non possiamo attualmente aspettarci molto, in termini di contributo allo sviluppo del valore prodotto dal singolo dipendente. Potremmo aspettarci solamente aumenti nei volumi dei prodotti-servizi tradizionali a basso valore (se la concorrenza ce lo permetterà). Su tali aumenti può anche contribuire lapporto del lavoro degli immigrati integrabili.

Una società inconsapevole dei suoi limiti culturali

A parità di sistema economico abbiamo quindi qualche possibilità di aumentare il Pil totale, ma occorre considerare che negli ultimi 30 anni non ci siamo riusciti. Con tale scarsa capacità di base non sembra però possibile riuscire ad aumentare il livello del valore del prodotto-servizio in modo riconoscibile dal mercato. Per aumentare il valore prodotto dal singolo, occorre che aumenti il valore del prodotto-servizio generato dalla sua organizzazione e anche quello del suo contributo. Difficile trovare margini per l’aumento della retribuzione delle persone con gli attuali valori aggiunti. Tale tipo di analfabetismo, inoltre, non è purtroppo strettamente correlabile con il livello di scolarità delle persone, presentandosi con una consistente percentuale anche nella popolazione laureata.

Anche l’informazione è purtroppo causa e vittima di tale situazione. Dovendo (o volendo) comunicare in modo molto semplice, i media mainstream forniscono informazioni approssimative e molto spesso condizionate da posizioni politiche, ideologiche o da lobby. Di fatto, non rendono consapevole la popolazione dei motivi del nostro degrado e dell’urgenza di un cambio di rotta.

Non lo hanno fatto sicuramente finora. Ne è anche prova il fatto che nella popolazione manageriale non sono tanti coloro che sono consapevoli, per esempio, della nostra posizione nel ranking mondiale del Pil pro capite o del fatto che oggi abbiamo una produttività ferma a oltre 50 anni fa (Total Factor Productivity, Groningen University). In effetti, non ho mai visto citare in modo chiaro questi dati nelle pagine dei nostri media mainstream. Vedo invece spesso informazioni e commenti che sembrano assecondare il convincimento che ‘anche questa volta ce la faremo’.

A tal riguardo, vorrei chiedere a chi fa tale affermazione ottusamente ottimistica quando è stata l’ultima volta che ce l’abbiamo fatta, visto che la nostra produttività non aumenta dal 1970 e che il nostro attuale Pil reale è al livello di quello di 20-25 anni fa. È dagli Anni 90 che abbiamo perso il treno dello sviluppo, su cui sono invece saliti i Paesi comparabili con noi. A proposito della stampa che non ci aiuta a capire come il nostro degrado arrivi da lontano e quali possano essere i veri motivi, non mi sembra un caso che essa si arrabatti tra il 41esimo e il 58esimo posto a livello mondiale nella classifica sulla libertà di stampa: giusto per capirci, siamo al livello di Paesi come il Botswana, il Niger e la Nuova Guinea (dati di Reporters sans frontières).

Per quanto riguarda le competenze specifiche, siamo purtroppo rimasti arretrati non solo per la scarsità degli insegnamenti, ma anche per l’impoverimento dell’ecosistema tecnologico e di business dovuto alla fuga dall’Italia delle multinazionali e delle grandi aziende. Queste costituivano fonte e capacità di disseminazione di know how tecnologico e di business, oggi prevalentemente legato alla digitalizzazione e alla servitizzazione, il cui know how non è sufficientemente diffuso in Italia.

L’articolo è la prima parte della riflessione di Giorgio Merli sulle questioni produttività e salari bassi. La seconda parte dell’articolo è titolata “Rigenerare il sistema economico per aumentare i salari”.

produttività, retribuzione, Pil reale, analfabetismo funzionale, concorrenza interna


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Giorgio Merli

Giorgio Merli è autore di numerosi libri e articoli sul management pubblicati in Europa e negli Usa; è consulente di multinazionali e Governi, oltre che docente in diverse università in Italia e all’estero. È stato Country Leader di PWCC e di IBM Business Consulting Services

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