Ripensare l’impresa dopo la pandemia

L’impresa è la risultante delle relazioni tra le persone che la compongono nei loro diversi ruoli esercitati in connessione con chi vive altre organizzazioni, in una reciproca ricerca di senso volta a scambi di natura economica, e non solo, con il mercato e le comunità nelle quali agiscono.

Queste interazioni sono per loro natura dinamiche, intricate e percorse dalle emozioni, dalle motivazioni e dai vissuti degli individui che si muovono in questo complesso mondo socio-economico-tecnico. Le imprese in realtà sono popolate dai sogni, dalle paure, dalle ansie, dai desideri, dai progetti, dal coraggio, dal desiderio di futuro delle persone che le rendono vive, perché prima di ogni altra cosa sono vita. Tutte qualità che l’esperienza del Covid-19 ha avvolto in una luce crepuscolare.

Quello del lockdown antipandemico è stato per tutti un tempo innaturale di fermo e di isolamento. Di incertezza e di ansia. Ma anche un momento di riflessione, mosso tra la paura di ciò che sarebbe potuto accadere dal punto di vista della salute, ciò che si stava profilando sul piano economico in conseguenza del blocco delle attività e l’inquietudine per il necessario coraggio di un ritorno in società.

Disordine, opacità, ambiguità, disorientamento, incredulità, incertezza sono state tra le prime sensazioni che hanno attraversato una comunità che, nel volgere di un attimo, ha preso coscienza della sua fragilità intrinseca, al di là degli splendori superficiali delle proprie manifestazioni di vita e della propria supposta invincibilità. È in questo contesto che il distanziamento fisico e, per certi versi, anche sociale ha disseminato con il passare dei giorni e delle settimane piccole o grandi prese di coscienza, che i media hanno ampiamente documentato in articoli, interviste e servizi che segnalavano diffuse manifestazioni di nostalgia.

Nostalgia per ciò che si aveva e da cui si è stati allontanati, ma anche per ciò che non si sapeva più di avere, perché nascosto in una ripetitiva quotidianità o perduto nel frenetico rincorrersi di routine vissute, come ben puntualizzato dall’antropologo francese Marc Augé, nel sovrastante dominio di un dilatato presente che erodeva spazi alla memoria e alla progettazione del futuro. Presente guidato dai princìpi del tutto e subito e della massimizzazione dei risultati economico-finanziari dell’attività in un’innaturale frenesia dell’azione.

Concetti che nella loro affermazione e diffusione hanno finito con il dominare il decisore, spesso ridotto a semplice esecutore delle scelte efficientistiche più opportune per sé, indipendentemente dall’impatto che queste possono avere sugli altri, sulle comunità e sull’ecosistema globale nel quale si manifestano.

Ma forse è proprio questo dominio incontrastato della tecnica sull’uomo che in qualche modo l’isolamento ha iniziato a mettere in discussione. Lo ha fatto portando le persone ad apprezzare ciò che era stato posto in secondo piano e a desiderare di riappropriarsi di ruoli decisionali cui si era arrivati, spesso inconsapevolmente, ad abdicare.

Riscoprire la dimensione personale del lavoro

Sono apparsi così in tutta la loro forza il valore riflesso dal calore delle relazioni umane, pur con tutte le loro stravaganti dinamiche tra armonie e contese, e la necessità di affrancarsi dalla semplice tecnica nei processi decisionali per alzare lo sguardo verso orizzonti di sostenibilità.

Così durante il lockdown è capitato di sentire un maturo lavoratore dire: “Pensa, mi manca svegliarmi alle 6.30 tutte le mattine, scambiare battute con i colleghi, programmare la giornata, addirittura mi mancano le rogne e i problemi con i clienti e tutte quelle cose che fino a due mesi fa detestavo”.

Come pure uno giovane chiedersi: “Perché non si riduce l’orario? Potrebbero lavorare tante persone in più, con un’efficienza che aumenterebbe grazie all’intensità dell’impegno praticabile su un nastro orario più breve, che massimizza la concentrazione. E questo migliorerebbe anche la qualità del tempo libero e così, indirettamente, anche quello del lavoro”. O un affermato imprenditore riflettere sulla situazione nel caotico disordine che la pandemia ha portato con sé e dire: “Licenziare un dipendente per me è come licenziare me stesso”.

Frasi che, pur da prospettive apparentemente del tutto diverse, guardano in una sola direzione: quella del sentirsi parte di un unico progetto. Ecco, è come se l’astensione obbligata dall’attività, totale o parziale, abbia portato alla luce una dimensione del lavoro non legata esclusivamente a fattori economici, ma più personale, più intima, quasi esistenziale.

Come se fosse stato possibile ri-scoprire, in modo diretto e al di là di qualsiasi mediazione intellettuale, come e quanto il lavoro, in qualunque forma si manifesti, sia parte integrante della vita di ciascuno e quindi di tutti, anche di chi non ce l’ha o rischia di perderlo.

Corre così alla mente il pensiero dello scrittore Primo Levi quando nel suo La chiave a stella osserva che “l’amare il proprio lavoro (che purtroppo è privilegio di pochi) costituisce la miglior approssimazione concreta alla felicità sulla terra”.

Un sentimento indipendente dal tipo di lavoro e dal ruolo che si interpreta in esso. Perché questo amore può coinvolgere con la stessa intensità l’imprenditore, il manager e il lavoratore, che in questa prospettiva rivelano, e/o ‘scoprono’, un tratto comune, quello di essere prima di ogni altra cosa persone.

Tra le quali il Covid ha diffuso la consapevolezza di essere tutti parte di una stessa squadra, che affronta una sfida affatto nuova e imprevedibile, quantomeno nelle sue dimensioni. E in particolare ha disseminato la contezza che il risultato finale non dipende da singoli comportamenti, ma dalla condotta responsabile di ognuno, anche di coloro che semplicemente si sono attenuti alle procedure di isolamento scambiando parti di libertà con la salvaguardia della salute propria e degli altri.

*L’articolo è stato scritto da Claudio Baccarani e Vittorio Mascherpa

L’articolo integrale è pubblicato sul numero di Dicembre-Gennaio di Persone&Conoscenze.
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