Realtà virtuale

Smart working o in presenza? L’alternativa è il metaverso

Il metaverso non è solo per aziende piccole e oscure. Anche organizzazioni come Walmart, Nike e Gucci vi hanno fatto il loro ingresso e molte altre hanno in programma di esplorare queste terre virtuali. Per la testata statunitense Quartz, un numero crescente di CEO lo sta già sperimentando come luogo di lavoro, soprattutto da quando è decollato lo Smart working. Se incontrarsi di persona non è possibile, sembra che il metaverso stia diventando la migliore alternativa alle relazioni in presenza. Come possa inserirsi nell’ambiente di lavoro rimane una questione ancora in buona parte da indagare, ma le prime ricerche e sperimentazioni suggeriscono che il suo impiego in ambito lavorativo possa avvenire seguendo tre principali direttive: quella di un ufficio alternativo; quella di un luogo per la formazione immersiva; quella di uno spazio di ritrovo per i dipendenti. 

Il metaverso non è un unico luogo. Per il momento, e considerando che si tratta di un concetto in continua evoluzione, quando le persone vi si riferiscono, lo fanno pensando a una serie di spazi di realtà virtuale normalmente sperimentabili attraverso un visore di Realtà Virtuale (sebbene funzioni anche un computer). Gli appassionati sperano che un giorno questa realtà prenda la forma di una sorta di Internet decentralizzato, dove si possa vivere, fare acquisti, lavorare e socializzare in spazi digitali pubblici o privati. Ma attualmente c’è solo un assortimento di mondi virtuali non connessi, che sono in generale per lo più aperti al pubblico, anche se alcuni luoghi o eventi potrebbero richiedere una password o un invito speciale per entrare.  

In questi mondi sta sbocciando un’economia nascente, con persone che spendono denaro per acquistare proprietà o abiti firmati virtuali, tutti fatti di codice. Gli scettici affermano che il metaverso non sarà mai altro che un interesse marginale, se non per i gamer, che già spendono centinaia di milioni di dollari all’anno in contenuti virtuali. Ma Suneet Dua, Products & Technology Chief Revenue e Growth Officer della società di consulenza britannica PwC, è convinto che siamo destinati, tra tre o cinque anni, a passare la maggior parte della nostra giornata lavorando ed effettuando transazioni nella realtà virtuale. 

Se il quadro sembra inverosimile, basti pensare solo a quanti cambiamenti hanno avuto luogo negli ultimi 24 mesi. “Avreste mai pensato di trascorrere intere giornate di lavoro in videochiamate?”, ha fatto notare Dua. Certo, le questioni su come proteggere il metaverso dall’incitamento all’odio e dalle molestie e su come tutelare i dati sensibili – aspetti già cruciali per il ben più noto web – devono ancora essere risolte, ma le incognite non sembrano trattenere le aziende dall’iniziare a sperimentare. 

Chiacchiere tra avatar alla macchinetta del caffè  

Erin McDannald, CEO di Environments, una società di smart design con sede a Baltimora, negli Stati Uniti, che ha creato un gemello digitale nell’azienda, si è approcciata al metaverso quasi per caso. Era il 2020 e da un mese il lockdown dovuto alla pandemia aveva portato alla chiusura delle sedi fisiche di innumerevoli uffici, quando la CEO chiese al suo staff di iniziare a ragionare come se l’emergenza sanitaria non dovesse finire mai; fu allora che un ingegnere esperto di data architecture caricò copie 3D della sede dell’azienda su Unity, una piattaforma di gioco. I dipendenti scoprirono con quanta facilità potevano costruire uno spazio virtuale e popolarlo con gli avatar dei colleghi. 

Ora un gruppo di dipendenti di Environments lavora virtualmente ‘in ufficio’, mentre lavora da casa. La maggior parte non indossa cuffie VR, ma usa un mouse per spostare il proprio avatar, entrando nelle stanze virtuali per le riunioni. “È un enorme miglioramento rispetto a Zoom perché le interazioni sembrano più vicine al modo in cui ci comportiamo di persona. L’audio ambientale, in cui si sente la voce di qualcuno provenire dalla direzione del suo avatar e si sente svanire quando si allontana, è una delle ragioni principali per cui le persone spesso dicono che le conversazioni nel metaverso sembrano naturali. Lo stesso vale per le conversazioni semi private tra persone mentre ci si trova intorno a una macchinetta del caffè”, ha spiegato McDannald. Nel futuro, le piacerebbe che le persone reali possano mescolarsi agli ologrammi dei colleghi. 

Il metaverso come centro di formazione  

Anche le sessioni di formazione immersiva e l’onboarding potrebbero trovare spazio nel metaverso. Immaginando le potenzialità dello strumento, si potrebbe, per esempio, partecipare a un’esercitazione sul campo sul tema della sicurezza oppure ci si potrebbe interfacciare con clienti virtuali per fare pratica. O ancora, i tirocinanti potrebbero muoversi in uno spazio che corrisponde esattamente a quello dell’azienda nella quale si stanno inserendo. Pratiche già ampiamente in uso, grazie alla realtà virtuale, ma di certo inedite se sviluppate nel nuovo ambiente digitale. 

A questo proposito, alcuni studi citati da Quartz hanno messo in luce come i ricordi di una persona e l’efficacia complessiva di un training migliorino quando il mezzo è la Realtà Virtuale, rispetto ai video di formazione standard e ai quiz interattivi. Questo potrebbe, dal punto di vista di Dua, avere ripercussioni anche sulla sfera dell’istruzione portando, per esempio, a una svalutazione dell’istruzione superiore e dei titoli accademici. 

Il metaverso potrebbe non sostituire mai completamente il lavoro di persona. Ma l’ambizione del settore è che sulla scrivania, a casa o in ufficio, si abbia il computer, il telefono, l’orologio e le cuffie. E a seconda dell’interazione che si vuole avere, è possibile scegliere l’ambiente giusto. 

Fonte: Quartz 

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Erica Manniello

Laureata in Filosofia, Erica Manniello è giornalista professionista dal 2016, dopo aver svolto il praticantato giornalistico presso la Scuola superiore di Giornalismo “Massimo Baldini” all’Università Luiss Guido Carli. Ha lavorato come Responsabile Comunicazione e come giornalista freelance collaborando con testate come Internazionale, Redattore Sociale, Rockol, Grazia e Rolling Stone Italia, alternando l’interesse per la musica a quello per il sociale. Le fanno battere il cuore i lunghi viaggi in macchina, i concerti sotto palco, i quartieri dimenticati e la pizza con il gorgonzola.

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