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Viviamo in digitale, ma lavoriamo come nell’800

È arrivata l’ora di ripensare la gestione del tempo del lavoro.

Uno dei mali storici della nostra economia è la stagnazione della produttività negli ultimi decenni. Altri Paesi, invece, hanno realizzato notevoli incrementi di produttività non solo grazie alle innovazioni tecnologiche e organizzative, ma anche per l’uso di nuovi paradigmi di gestione del tempo di lavoro, più flessibili e manovrabili dalle imprese e più adatti alla conciliazione vita-lavoro.

La cultura tradizionale italiana, basata sul lavoro dipendente come lavoro subordinato a tempo pieno con totale fedeltà all’impresa, con presenza assidua e con tante ore straordinarie, è arrivata intatta fino ai nostri giorni. Una innovazione si è diffusa solo in quei settori (Gdo, Ristorazione, Turismo e Call center) nei quali gli enormi picchi di lavoro rendono quasi obbligatorio il ricorso al part time più che al full time. È, tuttavia, sorprendente come la cultura dell’orario tradizionale si sia perpetuata, nella stragrande maggioranza dei casi, senza scosse e senza tentativi di aggiornamento.

Alcuni fabbisogni emergenti, anche nel nostro Paese, riguardano i tempi di lavoro, i tempi dei servizi e delle città e anche il tempo libero, soprattutto quello da dedicare alla formazione continua. In questo particolare momento storico, c’è la necessità di mantenere il distanziamento spaziale prescritto dagli standard sanitari. Esso si può realizzare più facilmente utilizzando anche la leva temporale e non solo quella degli spazi, per esempio scaglionando ingressi e uscite, diffondendo le turnazioni, allungando le aperture in qualsiasi ambiente.

Questa esigenza richiama, però, un maggiore coordinamento dei tempi delle città e in generale degli orari dell’intero Paese. È necessaria anche una maggiore flessibilità produttiva per consentire alle imprese di affrontare meglio la crisi economica e l’altalena dei mercati nei prossimi mesi. Tuttavia, non si potranno scaricare le esigenze di flessibilità dell’impresa solo sui lavoratori, quest’ultima andrà coniugata con più conciliazione tra vita e lavoro. In prospettiva c’è anche il problema della disoccupazione anche tecnologica ed emergeranno in molti settori esigenze di ricollocamento e di riconversione professionale.

Un’occasione per sperimentare nuove soluzioni

La situazione creatasi con la pandemia ci offre una straordinaria possibilità di sperimentare diffusamente nuove soluzioni e nuovi paradigmi di gestione degli orari in modo generalizzato e condiviso tra gli attori (imprese, lavoratori, sindacati, autorità politiche). Infatti, ci sono diffuse necessità sia di variare le ore di lavoro per il crollo dei mercati sia di ridurre le ore di lavoro, coperte per un periodo dalla cassa integrazione; ma c’è pure la possibilità di effettuare, nelle ore di fermo produttivo, una formazione di massa obbligatoria attraverso il Fondo nuove competenze.

Ridurre l’orario di lavoro, con forme mirate, progressive e in piccole dosi ma generalizzate, è una leva fondamentale per superare alcune difficoltà strutturali del Paese. Si tratta di congegnare riduzioni adatte alle filiere, distretti o alle singole realtà produttive e parzialmente modulate sulle esigenze delle persone per prepararci ai sistemi produttivi del futuro e soddisfare nuovi modi di vita.

Anche dal punto di vista della spesa pubblica allo Stato conviene incentivare forme strutturali di riduzione, flessibilizzazione e modulazione degli orari di lavoro, piuttosto che distribuire sovvenzioni improduttive e insostenibili, tra cui, per esempio, la Cassa integrazione a zero ore per tutti i settori e senza controlli.

La proposta combina tre interventi strettamente collegati: la lotta allo straordinario, la riduzione generalizzata dell’orario per alcune ore medie settimanali, una maggiore diffusione del part time soprattutto nella forma delle 5-6-7 ore medie.

Strumento di contrasto allo straordinario

Una priorità per il Paese è la lotta all’uso patologico dello straordinario coniugata con l’adozione di strumenti alternativi di flessibilità produttiva, più evoluti, meno costosi e che accrescono la produttività delle aziende. Erroneamente si ritiene che lo straordinario sia un risparmio, dato che la singola ora è pagata meno dal momento che su di essa non gravano molti istituti salariali e contributivi (per esempio il TFR).

In realtà lo straordinario è fonte di costi nascosti e di sprechi enormi con ricadute negative su qualità e produttività. Intanto, essendo volontario scombina i cicli produttivi che richiedono la compresenza di tutti gli addetti diretti e di indiretti (per esempio manutenzione e qualità). Inoltre, nelle ore straordinarie le persone lavorano male e malvolentieri: molte operazioni sono incomplete o restano a metà, c’è confusione e disorganizzazione. Altri costi sono legati all’apertura dell’azienda per poche persone, al sottoutilizzo dell’energia, a sprechi di materiale, alla necessaria presenza di capi e servizi. Criticità che sono ancora più rilevanti nei nuovi ambienti ad alta automazione e nei sistemi just in time dove è necessaria una presenza minima collettiva di tutte le funzioni. Infine, lo straordinario a basso costo spinge le imprese a non fare investimenti.

La grande diffusione dello straordinario dipende anche dal fatto che i lavoratori hanno bisogno di più salario, sono carenti strumenti moderni di flessibilità oraria e, in alcuni casi, si usa lo straordinario come strumento di potere gerarchico. Gli effetti negativi si riverberano anche sull’occupazione. Nel solo settore metalmeccanico le ore straordinarie annue pro capite effettuate negli ultimi anni, sono più di 60, il che equivarrebbe a più di 50mila posti di lavoro full time.

Ridurre l’orario settimanale in modo flessibile

In secondo luogo, bisogna intervenire sulla riduzione generalizzata di orario (fra 34-38 ore medie settimanali) ma flessibile e modulabile da 40 ore nei picchi produttivi a 30-35 nei flessi. Questa riduzione strutturale può essere molto utile per fronteggiare le oscillazioni generate dalla pandemia, ma soprattutto per ridurre l’impatto della disoccupazione tecnologica conseguente ai massicci investimenti in tecnologie digitali che si prospettano in Europa, vedi il programma Next Generation.

La riduzione di alcune ore, unitamente all’abbandono definitivo della Cassa integrazione a zero ore tipica della storia italiana, renderebbe inoltre disponibile del tempo per quella formazione continua di massa indispensabile per adeguarci al XXI secolo. Si tratta dunque di superare l’attuale paradigma di orario standard (centrato sulla giornata lavorativa di otto ore) con l’adozione di sistemi di orario che combinano flessibilità produttiva e conciliazione vita lavoro.

Questo incontro virtuoso, e a somma positiva fra due esigenze temporali diverse di solito ritenute inconciliabili, è il risultato di un po’ di ingegneria degli orari, di un approccio sperimentale e di piccoli sacrifici da ambedue le parti in cambio di soluzioni complessivamente più efficaci ed efficienti per tutti

Incentivare il ricorso al part time

Questi benefici potrebbero essere amplificati infine rafforzando e incentivando la diffusione degli orari a part time, cioè quelli con orari medi giornalieri di quattro, cinque e, soprattutto, sei ore, purché resi più flessibili e più modulabili. Anche in questo caso la gestione aziendale degli orari part time combinati con quelli a full time dovrebbe essere modulabile con accordi tra azienda e lavoratore, secondo regole esplicite negoziate a livello aziendale o di filiera (cosiddetti orari a menù).

Anche questa soluzione richiede il superamento di rigidità normative, introdotte in un’altra epoca con finalità protettive e che oggi non sono più attuali. Concepite per salvaguardare il diritto del lavoratore a svolgere più lavori e quindi a salvaguardare il salario, in realtà non hanno avuto gli effetti auspicati: per esempio non hanno contrastato la proliferazione del part time involontario.

Usare le sovvenzioni Sure e stimolare la produttività

È evidente però che per rendere fattibili queste manovre occorre risolvere la questione salariale che una riduzione di orari comporta. Allo stato attuale, i lavoratori che passassero da full time a 35-38 ore medie, subirebbero una riduzione di salario, se pagati in proporzione. Questo esito può essere annullato con due tipi di manovre.

A breve l’integrazione al salario potrebbe essere sostenuta dalle sovvenzioni del programma europeo Sure e dalla Cassa integrazione italiana. In alternativa si rischia di utilizzare il Sure per continuare a coprire i costi della Cassa integrazione a zero ore per tutti i settori.

Sul medio periodo va previsto un secondo tipo di compensazione, cioè riconoscendo premi di flessibilità e di produttività, collegati agli incrementi di produttività ottenuti a seguito dei cambiamenti, e defiscalizzando il salario di produttività. Lo spostamento degli incentivi pubblici su questi nuovi regimi di orario può essere il fulcro di una nuova politica attiva per incentivare la produttività del lavoro, ridurre la disoccupazione, minimizzare il lavoro precario, e sostenere i salari. In tutti i casi le nuove soluzioni di orario debbono essere combinate con la Formazione continua di massa e obbligatoria.

Cambiare il paradigma coinvolgendo vari attori

Tutte le osservazioni proposte convergono verso una conclusione: la gestione degli orari di lavoro in Italia necessita di un profondo cambio di paradigma. Esso non può essere realizzato né con una razionalizzazione calata dall’alto né con un semplice aggiustamento della legislazione per rimuovere i vincoli di legge esistenti. Passa invece per una fase di sperimentazione collettiva, partecipata e monitorata nei suoi fabbisogni, effetti e risultati dai vari punti di vista. Ricordiamo soltanto alcuni dei prerequisiti di questa sperimentazione.

Un primo prerequisito è il superamento della asimmetria informativa tra l’azienda e le rappresentanze sui temi dell’andamento di mercato, gli ordini e la programmazione della produzione o servizio. Occorre mettere le Rsu nelle condizioni di comprendere bene e compiutamente le esigenze produttive. Un altro aspetto della asimmetria informativa riguarda la capacità di ambedue gli attori – azienda e sindacato – di comprendere i fabbisogni temporali delle diverse tipologie di lavoratori presenti per dare risposte sufficientemente personalizzate a questi fabbisogni. Bisognerà, infine, potenziare il sistema delle informazioni per monitorare i livelli di produttività e i premi di risultato, e le strutture di partecipazione organizzativa.

Un secondo prerequisito riguarda la capacità degli attori di elaborare alternative fattibili di organizzazione degli orari per individuare le soluzioni più adatte al contesto: a questo scopo è utile una formazione congiunta tra tecnici aziendali e rappresentanze per creare un linguaggio comune e sviluppare competenze di problem solving condiviso. Riguardo alle soluzioni innovative di nuovi regimi di orario c’è poi da affrontare la questione dei vincoli di legge sul part time e sugli orari, senza contare le necessarie deroghe ai Ccnl.

Un terzo prerequisito riguarda la formazione. Vi è intanto da soddisfare un fabbisogno di formazione continua focalizzata che richiede innovazioni sia nei contenuti sia nei metodi per superare l’approccio con cui in passato è stata gestita la formazione continua in Italia. Questo problema potrebbe essere, a nostro avviso, meglio gestito da commissioni scientifiche di tipo paritetico, bilaterali tra aziende e rappresentanze, che diano indicazioni su contenuti e metodi adatti al settore, filiera o territorio.

Ci sono poi altre questioni che riguardano i fabbisogni collegati direttamente all’interesse dell’impresa (formazione per il mercato) da soddisfare nell’orario di lavoro. C’è infine l’esigenza di una formazione di massa (competenze digitali, cultura ambientale, innovazione, capacità trasversali) che impatti sull’occupabilità e sulla cittadinanza da realizzare fuori dall’orario di lavoro.

Infine, vi è il problema degli incentivi alle imprese e delle risorse per finanziare i salari nel periodo transitorio di pandemia e nel periodo successivo a regime del nuovo paradigma. La nostra ipotesi è che, a parte la questione della cassa integrazione, gli incentivi pubblici debbano avere una natura selettiva. Le risorse pubbliche dovrebbero essere collegate a piani di ristrutturazione degli orari realizzati sulla base della contrattazione, anche di settore, filiera o territorio.

Manovre di questo tipo, collegate anche a investimenti in tecnologie, implicano valutazioni di carattere organizzativo, che non possono essere gestiti con interventi ope legis o regimi di compensazione di carattere automatico o con semplici bandi anche a sportello. Forse potrebbe essere utile un supporto da parte di qualche soggetto nazionale che lavori a stretto contatto con le parti sociali, datoriali e sindacali, e che si facesse anche carico del monitoraggio della sperimentazione e dei suoi risultati.

Superare lo schema classico di lavoro, sonno, recupero

In sintesi, si deve concludere che va abbandonata la giornata tipo del lavoratore come era stata pensata nell’800: cioè otto ore di lavoro, otto ore di sonno, otto ore di recupero. Lo schema non è più in grado di sorreggere i nostri sistemi produttivi ad alta tecnologia, alta flessibilità e con richieste di conoscenze nuove, diffuse e in rapida evoluzione.

Oggi è necessaria una riduzione di orario di lavoro limitata, ma generalizzata, con variabilità concordabile tra azienda e persone e con ore (almeno una o due ore al giorno) di formazione continua obbligatoria per tutti.

Il nostro auspicio è che le proposte delineate possano essere una traccia per elaborare un programma pluriennale di investimenti innovativi anche per rispondere a quanto ci viene richiesto in questa fase dalla Commissione europea.

*L’articolo è stato scritto da Luciano Pero, Luigi Campagna e Antonella Marsala

flessibilità, riduzione orario di lavoro, formazione continua obbligatoria, cassa integrazione, Programma Sure

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