Pay gap

Il bla bla bla sul salario minimo

Parafrasando l’attivista Greta Thunberg, i leader politici non fanno bla bla bla solo per le questioni ambientali. Infatti, in Italia si è tornati a parlare di salario minimo: la questione tiene banco nel Governo, ma anche la Cgil, a fine settembre 2021, ha chiesto l’imposizione di una retribuzione minima da applicare a ogni ambito professionale. Il Presidente dell’Inps Pasquale Tridico l’ha quantificato in 9 euro lordi orari: secondo i dati di Inps e Istat, la misura riguarderebbe 4 milioni di lavoratori coinvolti e riguarderebbe anche quel 15% di occupati italiani che non sono tutelati da un contratto di categoria (questi sono anche i lavoratori più fragili e a più basse mansioni, come i rider e gli operai agricoli).

Il salario minimo non è da però confondere con le misure di tipo assistenziale, come il reddito di cittadinanza. Si tratta in questo caso di una misura adottata da 22 Stati europei su 28, che stabilisce per legge la retribuzione o la paga oraria sotto la quale il datore di lavoro non può retribuire le persone. Apparsa per la prima volta alla fine dell’Ottocento in Nuova Zelanda nell’Industrial conciliation and arbitration act (un’iniziativa che affrontava il mancato rispetto delle decisioni arbitrali da parte dei datori di lavoro, tra cui anche la questione salariale minima), la norma si è poi diffusa in tutto il mondo.

In Italia i minimi retributivi sono fissati dai Contratti collettivi nazionali di lavoro (Ccnl): ne esistono diversi, a seconda dell’ambito professionale o produttivo e sono frutto di contrattazioni tra i sindacati e le varie associazioni di categoria. La stipula di contratti collettivi non è obbligatoria, ma è molto diffusa: secondo i dati a disposizione, vi rientra circa l’85% dei lavoratori subordinati.
Nel nostro Paese esistono due ambiti in cui il Legislatore ha fissato un trattamento minimo: le pensioni e i tirocini extracurricolari. Per questi ultimi, la cosiddetta riforma Fornero ha demandato alle Regioni l’onere di stabilire una retribuzione come soglia minima.

Garantire la sussistenza ai working poor

Tornato di attualità, c’è da precisare che di salario minimo si è ripreso a discuterne con regolarità almeno dal 2014, quando il Jobs Act aveva previsto l’introduzione di un “compenso orario minimo”, inteso più che altro come ammortizzatore sociale. Nelle intenzioni della legge c’era quella che la misura avrebbe coperto gli ambiti non rientranti nella contrattazione collettiva. Non sono mai stati emanati, però, i decreti attuativi.

In effetti, il salario minimo non è perfettamente assimilabile agli ammortizzatori più noti come la cassa integrazione o la disoccupazione: questi ultimi, infatti, coprono periodi di calo produttivo o di assenza di lavoro. La misura in oggetto ha, invece, lo scopo di garantire la sussistenza a chi ha un’occupazione. Sempre più spesso, infatti, si sente parlare di working poor, ossia sono quei lavoratori che, pur avendo un impiego più o meno stabile, non arrivano a livelli di retribuzione che consentano loro una vita dignitosa.

Siamo di fronte a uno dei paradossi della nostra epoca: i poveri, fino alla prima grande crisi del mondo del lavoro degli Anni Duemila, erano storicamente quelli che non lavoravano; ora anche chi lavora rischia di vivere sotto la soglia di povertà. Secondo i dati Eurostat, in Italia si tratta di circa il 12% dei lavoratori. La Commissione europea indica che la povertà lavorativa nell’Unione europea è passata dall’8,3% nel 2007 al 9,4% nel 2018.

Prima di ora non si era mai presa in considerazione l’ipotesi che un lavoratore – in particolare con un lavoro stabile e in modalità full time – potesse non arrivare alla sussistenza. Il lavoro è sempre stato considerato strumento di dignità e di inclusione sociale; invece, il progresso ha fatto sì che la cosiddetta Gig economy, l’economia dei lavoretti, spezzasse il circolo virtuoso tra lavoro e benessere.

Le principali obiezioni all’introduzione del salario minimo

Ma se questo è lo scenario, perché allora di salario minimo se ne discute, ma senza applicarlo concretamente? Le obiezioni principali sono per lo più legate alle diverse teorie economiche. Per esempio D.E. Card e A.B. Krueger, nel volume dal titolo Myth and measurement: the new economics of the minimum wage del 1995, ma anche S. Machin e A. Manning, in Minimum wages and economicoutcomes in Europe, (41 European Economic Review, 1997) sostengono che fissare un salario minimo troppo alto può avere l’effetto di aumentare la disoccupazione.

Come insegnano anche i più diffusi manuali di Microeconomia, si consideri quello di Paul Krugman e Robin Wells, più il prezzo di un bene o servizio è alto, meno è richiesto; viceversa, più un bene o servizio è a buon mercato, più è venduto. Così si delinea la famosa ‘curva di domanda’, con cui familiarizzano tutti gli studenti di Economia, anche quelli alle prime armi. Tuttavia, come recita il titolo di una celebre opera dell’economista statunitense Robert M. Solow, Il mercato del lavoro è un’istituzione sociale: cioè, non è determinato solo dall’incrocio tra domanda e offerta.

Possiamo dire, dunque, che il sistema-mercato del lavoro risponde a regole peculiari, in cui i salari sono determinati parimenti dalla domanda-offerta e da un insieme di convenzioni sociali, che stabiliscono la collocazione di ogni lavoratore all’interno dell’intervallo di salari possibili. È chiaro che si generi un’indeterminatezza del punto di equilibrio; ma proprio l’introduzione del salario minimo ridurrebbe questa situazione, che toglierebbe gli aspetti più negativi legati alla capacità contrattuale del singolo lavoratore.

Il rischio di incentivare lavoro nero e caporalato

Sebbene il nostro panorama nazionale sia dominato dalla contrattazione collettiva, persistono tuttavia alcuni punti ciechi. Secondo il Ministro del Lavoro Andrea Orlando, un salario minimo ragionevole potrebbe rafforzare la contrattazione e, di conseguenza, migliorare la crescita economica: i lavoratori a più bassa specializzazione e quindi con scarso potere contrattuale potrebbero avere più dignità, ma anche più liquidità da spendere, aumentando così la domanda di beni e servizi. Chi ha un reddito minimo, è la tesi di chi ne propone l’introduzione, è meno propenso al risparmio, ma è più incentivato a far circolare l’economia, avendo preferenze di consumo diverse e questo potrebbe generare ulteriori posti di lavoro.

Inoltre, la misura potrebbe costituire un correttivo alla lacuna principale presentata dal reddito di cittadinanza, che in alcuni casi incentiverebbe il beneficiario a non lavorare, perché rischierebbe di percepire un compenso da lavoro uguale, o addirittura inferiore, al sussidio.

Ultimamente accanto alla Cgil, anche altri leader politici – per esempio gli ex Presidenti del Consiglio Enrico Letta e Giuseppe Conte – hanno ripreso l’argomento del reddito minimo. C’è stato anche l’importante endorsement di Tridico, che ha osservato come i giovani e le donne siano stati i più penalizzati dalla pandemia per cui, a suo avviso, questa misura potrebbe aiutare tali categorie di lavoratori. Il Presidente dell’Inps aveva già avanzato questa proposta nel 2019: allora fu osteggiato da imprenditori e associazioni datoriali, che paventarono un aumento del 20% del costo del lavoro, insostenibile per le aziende italiane, che avrebbero, dunque, fatto maggiormente ricorso all’esternalizzazione della mano d’opera.

Anche a distanza di due anni, certe posizioni sono rimaste invariate. La politica redistributiva, considerata di stimolo alla crescita economica del Paese, non è sempre ben vista dalle imprese. Ma le aziende sono in buona compagnia. Per esempio tra chi ha dato parere negativo sul salario minimo, c’è Adapt, l’Associazione per gli studi internazionali e comparativi in ​​materia di lavoro e relazioni industriali fondata da Marco Biagi nell’articolo pubblicato a novembre 2020 dal titolo “La proposta europea di salario minimo legale: il punto di vista italiano e comparato”. Secondo i detrattori del salario minimo, inoltre esso favorirebbe fenomeni quali il lavoro nero e il caporalato. Sarebbe, poi di ostacolo a forme di lavoro con valenza sociale (per esempio le cooperative sociali).

Anche Walter E. Williams, docente di Economia alla George Mason University, scomparso alla fine del 2020, sosteneva nelle sue lezioni che il salario minimo fosse una delle principali cause della disoccupazione degli afroamericani negli Stati Uniti, dal momento che gli imprenditori, dovendo garantire una retribuzione equa, uniforme e non commisurata alle reali capacità del lavoratore, finivano per privilegiare determinate categorie, considerate pregiudizialmente ‘superiori’ ad altre.

Applicare correttamente i Ccnl già esistenti

Tra i non favorevoli al salario minimo c’è anche la Cisl. Come ha spiegato Enrico Bassani, Segretario Generale della Cisl Area metropolitana bolognese, i salari “da fame” sono dovuti principalmente alla mancata applicazione dei Ccnl da parte datoriale: piuttosto, è la sua proposta, è sul lavoro nero, sulle zone grigie che occorre intervenire. I comportamenti borderline vanno disincentivati con un maggiore controllo e bisogna correggere quelle parti dei contratti che possono generare gap salariali.

D’altra parte, sempre secondo il pensiero di Bassani, l’introduzione del minimo salariale potrebbe generare l’effetto di livellare verso il basso le retribuzioni che, invece, tengono conto di tutta una serie di fattori che non comprendono solo la paga base, gli elementi retributivi in senso stretto, ma anche altri istituti contrattuali, che concorrono in maniera significativa alla determinazione del compenso. Occorre dunque insistere, è la posizione della Cisl, sulla corretta applicazione dei contratti già esistenti.

Per ora, anche il Premier Mario Draghi sembra avvallare l’opinione del sindacato: parlando il 22 settembre 2021 all’Assemblea nazionale di Confindustria, non ha citato il salario minimo tra le priorità di intervento nel mondo del lavoro. Vedremo se il 2022 sarà o meno l’anno della concretizzazione di questa proposta spesso citata, ma mai realizzata.

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Chiara Pazzaglia

Bolognese, giornalista dal 2012, Chiara Pazzaglia ha sempre fatto della scrittura un mestiere. Laureata in Filosofia con il massimo dei voti all’Alma Mater Studiorum – Università degli Studi di Bologna, Baccelliera presso l’Università San Tommaso D’Aquino di Roma, ha all’attivo numerosi master e corsi di specializzazione, tra cui quello in Fundraising conseguito a Forlì e quello in Leadership femminile al Pontificio Ateneo Regina Apostolorum. Corrispondente per Bologna del quotidiano Avvenire, ricopre il ruolo di addetta stampa presso le Acli provinciali di Bologna, ente di Terzo Settore in cui riveste anche incarichi associativi. Ha pubblicato due libri per la casa editrice Franco Angeli, sul tema delle migrazioni e della sociologia del lavoro. Collabora con diverse testate nazionali, per cui si occupa specialmente di economia, di welfare, di lavoro e di politica.

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