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Ai manager in tilt serve l’ora di meditazione

Il Principe Harry, Duca di Sussex, durante un’intervista online con la star del tennis Serena Williams ha parlato del suo lavoro, quello vero: da circa un anno, infatti, è Chief Impact Officer della startup BetterUp, dedicata al coaching e al benessere mentale della Silicon Valley. Un job title che, sul suo biglietto da visita, si sostituisce sempre più di frequente ai titoli nobiliari. Anche da principe, infatti, il secondo genito di Diana si è sempre occupato di questi temi. Le iniziative caritative che ha tenuto a battesimo – compito che spetta a tutti i membri della Royal Family – hanno sempre avuto il focus sul tema del benessere mentale, della resilienza, dei buoni principi di leadership. 

Il CEO di BetterUp – startup unicorno, cioè che ha raggiunto la valutazione di mercato di 1 miliardo di dollari – che lavora a cavallo tra Europa e Stati Uniti, ha addirittura affermato di essere stato ispirato dalle attività di Harry, il quale si è battuto, per esempio, per l’assunzione a Buckingham Palace di un Diversity Manager. La notizia non è stata riportata da un giornale di gossip, ma nientemeno che dal Wall Street Journal, che ha riportato con toni entusiastici le dichiarazioni in tema di benessere mentale.  

Gestire i rischi di burnout dello Smart working 

Nell’intervista con Williams, in particolare, Harry si è soffermato sulla sua esperienza personale. Durante le sue blasonate attività caritative, ha rischiato la depressione e incontrato il burnout da lavoro. Quando ha smesso di viaggiare, le cose sono andate anche peggio: lo Smart working cui la pandemia ci ha costretti ha aggravato la situazione e il principe ne è uscito solo grazie alla meditazione. È una ricetta per tutti, o solo per principi ereditari? 

Secondo Marco Poggi, Presidente di Mida, factory di consulenza indipendente per la People transformation, Istruttore Certificato di Protocolli Mindfulness e autore del libro Mindfulrevolution – La via della mindfulness in azienda (ESTE, 2018) Harry dice cose molto sensate: “Sono quattro i motivi per cui lo Smart working può essere a rischio burnout”. 

Il primo è di tipo organizzativo: “Chi lavora da remoto passa da una videocall all’altra, senza soluzione di continuità e tempi di recupero, provocando un affaticamento generale, che non viene compensato nemmeno dalla pausa caffè con i colleghi”. Di conseguenza – ed ecco il secondo motivo – manca del tutto “quell’aspetto benefico della relazione interpersonale: ci si schiaccia sul contenuto professionale e si entra subito in tema, aggirando i rituali sociali, come lo scambio di battutepre e post riunione”. Questo aumenta, secondo Poggi, la percezione di isolamento del lavoratore. 

Il terzo motivo riguarda la nostra fisiologia: “Il cervello umano deve vivere nelle tre dimensioni; la bidimensionalità del video è un’alterazione dell’esperienza per cui siamo programmati. Questo genera un vero e proprio affaticamento cognitivo, perché la nostra mente cerca inconsciamente informazioni che non riesce a reperire”. Il quarto, e ultimo motivo, riguarda alcuni elementi di funzionamento a livello neuro-fisiologico: “I meccanismi della memoria subiscono un danno, perché manca l’orientamento spaziale. L’ippocampo contiene i neuroni Gps e, perdendo gli elementi di orientamento spaziale, si perde memoria. Anche quella autobiografica: il tempo passa, senza che ce ne rendiamo conto”. 

A fronte di questo dark side del lavoro ibrido, possiamo, però, adottare delle contromisure. I consigli di Poggi partono dal corpo, per arrivare alla mente. Il primo è: camminare. Sappiamo tutti che fa bene, ma la pigrizia prevale. Eppure, il benessere mentale inizia da quello fisico. A questa abitudine si può affiancare la meditazione. Che fa bene, perché produce un momento di raccoglimento, mentre noi siamo sempre ‘sparpagliati’ nel day by day, nei compiti e nelle cose da fare: “È come se facessimo tante cose senza profondità. La meditazione aiuta, invece, a centrare l’equilibrio”. Grazie a essa, possiamo aumentare la concentrazione e la capacità di attenzione, generando così prestazioni migliori, in connessione meno superficiale con quello he facciamo. “Ci fa lavorare meglio e stare meglio, perché l’impressione di fare tantecose e male è sensazione essa stessa di malessere”. 

Meditare per gestire le emozioni sgradevoli 

Bombardati di stimoli, aumentiamo la quantità di confusione mentale, producendo una sovrabbondanza di pensieri, che poi continuano a girare nella nostra testa in modo un po’ ossessivo, ingigantendo la portata e caricandoci di emozioni sgradevoli come ansia e rabbia. Peraltro, finiamo per trascinarci questa condizione anche nel rapporto con gli altri, siano i colleghi o le relazioni sociali fuori dal lavoro: queste emozioni disturbanti ci penalizzano in tutti gli ambiti della nostra vita. Meditare consente di fermarsi, chiudere gli occhi, concentrarsi sul respiro, guardando i pensieri che scorrono, senza farsi sopraffare da essi. Se si medita ogni giorno, con costanza, si arriva a interiorizzare questa capacità di distacco tra noi stessi i nostri contenuti mentali, con ricadute positive durante tutte le altre attività, nella capacità di concentrazione, essendo meno compulsivi e stressati rispetto alla complessità degli eventi che ci capitano.  

Imparare a meditare è una possibilità che tutti hanno. Molti non la conoscono e, fino a poco tempo fa, era associata a qualcosa di esotico e particolare, era vista con sospetto, se non addirittura come una perdita di tempo. Ma da qualche tempo si è fatta strada una nuova sensibilità, anche aziendale, al tema del benessere delle persone. Come fare, però, a far accettare a imprese e collaboratori questa pratica? Anzitutto, occorre fare cultura. La pandemia ne ha ampliato il bisogno, ma è bene non improvvisare e non approcciarvisi in emergenza. Occorre partire da una prospettiva scientifica: non è solo una delle tante iniziative di wellbeing che si propongono, ma bisogna arrivarci preparati, perché sia efficace. L’esperienza di Poggi ha radici decennali: “Durante i miei corsi, parto sempre da una cornice scientifica ed esplicativa, raccontando i benefici, sensibilizzando al tema e spiegando che la pratica della meditazione è utile solo se praticata con costanza, sistematicamente”.  

E più crescono le responsabilità, maggiore è il bisogno: “I manager sviluppano disturbi specifici, fisici e psicologici, che possono essere arginati attraverso la mindfulness”. Harry è un esempio: a grandi responsabilità conseguono grandi disagi. Bisogna, però, seguire correttamente i protocolli di riferimento e tecniche precise: stare in ascolto di se stessi aiuta a stare in ascolto degli altri, a costruire relazioni più profonde, ma va fatto nel modo giusto. Per essere accolti bene in azienda, è opportuno che i consulenti e i professionisti della mindfulness non si presentino come santoni o sciamani, è il suggerimento di Poggi. Occorre tenere sempre presente il contesto aziendale, pena la non plausibilità delle proposte. Bisogna usare un linguaggio coerente con l’ambiente e formulare una proposta in linea con la cultura d’impresa. Insomma, la meditazione in azienda serve, ma si fa in giacca e cravatta, non con gli abiti da yoga.  

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Chiara Pazzaglia

Bolognese, giornalista dal 2012, Chiara Pazzaglia ha sempre fatto della scrittura un mestiere. Laureata in Filosofia con il massimo dei voti all’Alma Mater Studiorum – Università degli Studi di Bologna, Baccelliera presso l’Università San Tommaso D’Aquino di Roma, ha all’attivo numerosi master e corsi di specializzazione, tra cui quello in Fundraising conseguito a Forlì e quello in Leadership femminile al Pontificio Ateneo Regina Apostolorum. Corrispondente per Bologna del quotidiano Avvenire, ricopre il ruolo di addetta stampa presso le Acli provinciali di Bologna, ente di Terzo Settore in cui riveste anche incarichi associativi. Ha pubblicato due libri per la casa editrice Franco Angeli, sul tema delle migrazioni e della sociologia del lavoro. Collabora con diverse testate nazionali, per cui si occupa specialmente di economia, di welfare, di lavoro e di politica.

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