Autonomia o sudditanza?

Le donne sono mediamente in servizio h24. Per loro il lavoro senza spazio e senza tempo non è una novità. Ma un conto è essere in servizio sette giorni su sette (donne e mamme non hanno mai negoziato il diritto di sciopero), cosa diversa è non avere più alcun confine tra ciò che chiamiamo lavoro e ciò che rientra in una diversa dimensione. Chiamiamolo famiglia, vita privata, affari propri… sta di fatto che gli strumenti tecnologici hanno abilitato invasioni di campo che portano a comportamenti devianti. Lo smartphone ci consente di essere presenti e contemporaneamente altrove. Per esempio possiamo rispondere a una mail apparentemente urgente mentre siamo con i nostri figli o con amici quando forse dovremmo dedicare attenzione a chi abbiamo davanti. E questa è la deriva dell’uso di strumenti che invece, se utilizzati con capacità e senso della misura, ci aiutano a coniugare lavoro e impegni familiari.

Questo il senso dello Smart working: ora che è diventato legge, consente ai dipendenti di svincolare, per un periodo contrattualmente predeterminato, la prestazione dal luogo in questa viene svolta. Un bell’aiuto per tutte le persone che per qualche giorno al mese possono evitare ore di traffico e gestire, con meno schizofrenia, gli impegni della vita. Ma è bene fare una distinzione, perché un conto è poter gestire in modalità smart una parte della nostra vita professionale, altra cosa è svincolare totalmente il nostro impiego dal luogo che identifichiamo essere come il ‘posto di lavoro’. Un luogo dove non solo lavoriamo ma che ci consente di esprimere un’importantissima dimensione di socialità. Quella dimensione di cui si sono resi conto di non poter fare a meno i ‘pentiti dello Smart working’, che dopo avere tanto desiderato allontanarsi dall’azienda ora fanno rovinosamente marcia indietro. Tanto che hanno preso piede altre modalità di lavoro –­­­dette di co-working– dove le persone condividono uno spazio lavorativo senza essere legate da nessun rapporto professionale, proprio per non rinunciare alla dimensione sociale e relazionale che l’attività lavorativa porta con sé e che tanto contribuisce alla nostra crescita personale e professionale.

Siamo in un mondo interconnesso e gli strumenti a disposizione consentono di intervenire, ad esempio in caso di malfunzionamenti degli impianti industriali, senza doversi recare sul posto per riparare un guasto. E qui emerge un’altra questione: l’operatore dovrà essere necessariamente reperibile negli orari negoziati con l’azienda, avrà tempi più flessibili, ma dovrà essere raggiungibile magari di notte o nel fine settimana e la valutazione della prestazione verrà totalmente svincolata dalla presenza per essere misurata con l’efficacia degli interventi svolti. La trasformazione digitale del luogo di lavoro impone quindi di mettere in atto nuovi modelli di leadership perché la misura del tempo trascorso in azienda appare anacronistica a fronte della necessità di misurare l’efficacia delle azioni del singolo. Si tratta di una sfida per i capi ma, tutto sommato, una situazione ancora rassicurante: da una parte c’è un operatore umano, connesso a distanza con la sua azienda, e dall’altra parte un capo, sempre umano, che deve valutare una prestazione.

Ci sono poi altre tipologie di lavori, generati dalle piattaforme, dove il lavoratore viene ingaggiato senza avere alcuna relazione ‘umana’ con il committente. È il caso delle piattaforme di crowdworking e dei lavori cosiddetti della Gig economy, da noi ribattezzata economia dei lavoretti. Lavori per i quali è difficile tracciare i confini tra autonomia e subordinazione. Di certo serviranno nuove regole, cercare soluzioni all’interno di regole create per regolamentare il lavoro del ‘900 rischia di portarci fuori strada. L’innovazione tecnologica ha cambiato il contenuto del lavoro, per questo il mondo della rappresentanza ha una grande sfida davanti a sé. Una sfida innanzitutto culturale e antropologica. In questo scenario è entrato in scena nel mondo del lavoro un fattore sconosciuto fino a qualche anno fa: l’autonomia. Ai lavoratori viene chiesto oggi di saper gestire una progettualità, di lavorare per obiettivi, di portare risultati.

Dotate di ogni dispositivo tecnologico, che permette di essere sempre connessi, le persone si sentono immerse in un flusso produttivo che non ha fine, si sentono più in pace con la propria coscienza se rispondono a una mail mentre il contesto vorrebbe che fossero con la mente altrove. Ma questa non è capacità di gestire la propria autonomia, è una gestione disordinata e schizofrenica del proprio tempo che, inevitabilmente avrà conseguenze negative sull’equilibrio familiare, che ha bisogno di poco per lasciarsi scalfire.

Se il lavoro è un diritto, oggi è dovere di ciascuno mettere in discussione se stesso, a partire dalla formazione da fare su di sé. Anche per governare la tecnologia.

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Chiara Lupi

Articolo a cura di

Chiara Lupi ha collaborato per un decennio con quotidiani e testate focalizzati sull’innovazione tecnologica e il governo digitale. Nel 2006 ha partecipato all’acquisizione della ESTE, casa editrice storica specializzata in edizioni dedicate all’organizzazione aziendale, che pubblica le riviste Sistemi&Impresa, Sviluppo&Organizzazione e Persone&Conoscenze. Dirige la rivista Sistemi&Impresa e governa i contenuti del progetto multicanale FabbricaFuturo sin dalla sua nascita nel 2012. Si occupa anche di lavoro femminile e la sua rubrica "Dirigenti disperate" pubblicata su Persone&Conoscenze ha ispirato diverse pubblicazioni sul tema e un blog, dirigentidisperate.it. Nel 2013 insieme con Gianfranco Rebora e Renato Boniardi ha pubblicato il libro Leadership e organizzazione. Riflessioni tratte dalle esperienze di ‘altri’ manager. Nel 2019 ha curato i contenuti del Manuale di Sistemi&Impresa Il futuro della fabbrica.

Chiara Lupi


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