Competenze digitali e divari regionali nelle PMI italiane

Le trasformazioni digitali pongono una sfida alle imprese, in particolare alle PMI, non solo sotto il profilo della loro strategia competitiva, ma anche e soprattutto rispetto alla loro capacità di adattare conoscenze e competenze in uno scenario tecnologico in continua e repentina evoluzione (Bessen, 2015; Oecd, 2016). Questa sfida si confronta con i rischi dello skill shortage, ovvero l’incapacità, all’interno e all’esterno dell’azienda, di coprire posti vacanti con professionalità adeguate, in particolare in contesti caratterizzati da una scarsa dotazione di competenze digitali. Non a caso l’International assessment of adult competencies (Oecd, 2019) evidenzia allarmato che quasi il 50% della popolazione adulta nei Paesi Oecd ha competenze tecnologiche molto limitate o assenti.

Con il termine di digital competence si suole indicare il possesso di conoscenze teoriche e performative rispetto a uno specifico dominio di conoscenza delle tecnologie digitali, indispensabili a una “partecipazione effettiva nel contesto domestico, scolastico, lavorativo, e nella società nel suo complesso” (Fraillon et al., 2013). Il concetto è perlopiù usato come sinonimo di quello assai più noto di digital literacy, inteso invece come abilità di una persona di svolgere efficientemente compiti in ambiente digitalizzato (Kavalier e Flannigan, 2008).

L’Oecd già nel 2005 la individuava come competenza chiave all’interno del Program definition and selection of competencies; successivamente, l’Unione europea (2010), includeva la competenza digitale nella lista delle otto competenze chiave della formazione permanente delle società della conoscenza; allo stesso modo l’Unesco (2010) sviluppava un progetto denominato ICT competency standards for teachers, che andava oltre il concetto di alfabetizzazione digitale includendo anche capacità di knowledge deepening e knowledge creation attraverso gli strumenti digitali. Il concetto di digital competence, assai più di quello di literacy, è in grado di rappresentare quel fattore di competitività aziendale capace di fronteggiare le tre principali sfide della trasformazione digitale (Pascucci e Temperini, 2017): la crescente personalizzazione di prodotti e servizi e della relazione tra azienda e cliente; l’affermazione e implementazione di nuovi modelli di business; l’ampliamento di opportunità di collaborazione all’interno e all’esterno della filiera.

Un’indagine internazionale condotta dal Boston Consulting Group (2013) in cinque Paesi (Usa, Germania, Cina, India e Brasile), che ha coinvolto circa 4mila PMI, evidenziava che le aziende tech-leader, ovvero quelle che hanno più investito nel processo di digitalizzazione, avrebbero raggiunto risultati comparativamente più significativi di tutti gli altri: +15% del fatturato, +50% di nuovi posti di lavoro creati, nonché una maggiore internazionalizzazione nei mercati di riferimento. Allo stesso modo un’indagine (Bi et al., 2016) rileverebbe un incremento significativo nell’efficientamento dei processi aziendali, in particolar modo nella condivisione di informazioni, nei processi di coordinamento e nella adattabilità e flessibilità ai mutamenti di mercato.

Questa letteratura si è poco confrontata con l’analisi del tessuto socio-economico di riferimento delle aziende prese in esame (Alam e Shahiduzzaman, 2014; Alam et al., 2018). La natura intrinsecamente relazionale dell’innovazione, emersa con forza dagli innovation study e dalla letteratura sui regimi dell’innovazione, impone di guardare non solo ai fattori di agenzia, ma anche a quelli contestuali e ambientali.

Si tratta di considerare, pertanto, la dimensione eco-sistemica (Nelson e Rosemberg, 1993; Carlsson et al., 2002; Edquist e Hommen, 2008) e la disponibilità di “beni collettivi locali” (Crouch et al., 2001; Trigilia, e Burroni 2011) per lo sviluppo come precondizione necessaria alla transizione digitale. Uno studio condotto su dati dell’European innovation scoreboard (Ramella e Donatiello, 2016) evidenzia come gli innovation leader, maggiormente specializzati nei settori dell’alta tecnologia e concentrati soprattutto nel Nord Europa, siano caratterizzati da investimenti pubblici (in percentuale al Pil) maggiori in istruzione terziaria e ricerca, nonché maggiormente capaci di sviluppare partnership collaborative con vari attori istituzionali, e in particolare con università e centri di ricerca. I Paesi mediterranei, invece, si attestano su livelli di innovazione moderati. In questo specifico scenario, il caso dell’Italia appare assai interessante per il suo modello di sviluppo triadico o “regionalizzato” (Bagnasco 2009; Burroni e Trigilia, 2009). È noto, infatti, come il tradursi dell’“imperativo digitale” (Fitzgerald et al., 2013) in una vera e propria trasformazione digitale si confronta con dotazioni infrastrutturali e capacitazioni variegate (Norris 2001; van Dijk e Hacker 2003).

Il digital divide italiano nella transizione al digitale

La riduzione del digital divide è uno degli obiettivi strategici formulati dal Ministero per lo Sviluppo Economico a partire dal 2008, quando varò il Piano nazionale banda larga. Tale impegno è andato rafforzandosi nel tempo, in particolare con l’avvio del Piano Industria 4.0 (2017-2020) per quanto, alla sua conclusione, gli obiettivi prefissati permangono ancora piuttosto lontani dall’essere pienamente conseguiti.

Infatti, alcuni indicatori sulla performance in senso digitale dei Paesi (del Digital economy and society index della Commissione Europea) evidenziano come l’Italia sia quint’ultima nel ranking europeo, seguita solo da Polonia, Grecia, Romania e Bulgaria. I gap più significativi si registrano nelle dimensioni che riguardano il capitale umano e l’uso e integrazione della tecnologia digitale.

L’analisi effettuata dal Politecnico di Milano (2019) ha replicato quella svolta a livello europeo al fine di analizzare le differenze regionali in Italia. Il punteggio complessivo mostra un’ampia variabilità tra i territori: dal 20,4 su 100 della Calabria al 49,7 della Lombardia. Delle nove regioni con punteggio superiore alla media, sette sono del Nord Italia (Lombardia, Emilia-Romagna, Liguria, Piemonte, Veneto, e province autonome di Trento e Bolzano) e due del Centro (Lazio e Toscana). Le regioni sotto i 30 punti sono tutte del Mezzogiorno. Emerge dunque un divario territoriale nei processi di digitalizzazione ampio, che sostanzialmente corrisponde a quello economico.

Secondo i dati Istat (2019), l’impiego di esperti ICT all’interno di aziende con meno di 50 dipendenti è rimasto stabile al 16%, anche in questo con un significativo divario territoriale: la percentuale arriva a quasi il 18% nelle imprese del Nord, ma scende al 12% nel Sud. Tale divario si riflette anche nell’impegno formativo alla digitalizzazione: il 60,9% delle aziende più grandi (con almeno 50 addetti) hanno organizzato nell’anno precedente corsi di formazione per sviluppare o aggiornare le competenze ICT, contro il 19% di quelle con meno di 10 addetti. Al Sud questa percentuale scende al 15,8%. Le aziende con livello di digitalizzazione “basso” secondo i dati Istat sarebbero concentrate soprattutto al Sud, dove rappresentano il 48% del totale, contro il 37% di quelle del Nord.

In questo scenario non stupiscono gli indicatori sul lento (per quanto progressivo) sviluppo dell’ecommerce in Italia: solo il 7% delle PMI italiane vende online, contro il 17% della media Ue-28, e questo mercato vale solo per il solo 6% del fatturato delle aziende italiane, contro il 10% europeo. Secondo i dati dell’E-commerce Foundation (2019), l’Italia rappresenta solo il 3,1% del mercato in Europa, contro il 29,4% di UK, il 17,4% della Germania e il 14% della Francia.

 

L’articolo è stato scritto da Davide Arcidiacono, Ricercatore in Sociologia Economica, Università degli Studi di Catania; Ivana Pais, Professoressa Associata di Sociologia Economica, Università Cattolica del Sacro Cuore; Samuele Poy, Ricercatore in Politica Economica, Università del Piemonte Orientale; Alessandro Rosina, Professore Ordinario di Demografia, Università Cattolica del Sacro Cuore.
L’articolo integrale è pubblicato sul numero di Novembre-Dicembre di Sviluppo&Organizzazione.
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digital divide, PMI, competenze digitali

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