Formazione continua come la scuola: a distanza non funziona

Il fondo For.te ha lanciato il grido d’allarme, denunciando la mancata erogazione di corsi nelle aziende.

Il nostro Paese ci ha messo più tempo di altri a capire l’importanza della formazione continua, anche in azienda. Per anni siamo stati ancorati alle competenze acquisite attraverso la scuola, l’università, la formazione professionale. Quando sembrava che avessimo finalmente compiuto il salto di qualità nell’ambito del cosiddetto reskilling e nella valorizzazione delle competenze trasversali, è giunta la pandemia a rimettere tutto in discussione.

I cambiamenti sono già evidenti anche nell’ambito delle singole aziende: laddove le parole d’ordine erano “pianificazione”, “controllo”, “medio e lungo periodo”, oggi la Direzione del Personale deve fare i conti con l’imprevisto, la capacità di adattamento, la resilienza. Dunque, i discenti della formazione continua ricoprono sempre più spesso il ruolo di ‘registi’: sono i lavoratori delle prime linee a essere, più di frequente, interpreti del cambiamento, accorgendosi con anticipo delle proprie necessità formative.

La sola formazione a distanza non basta

Il Covid-19 sembra però voler ostacolare questo processo. I Fondi intercategoria hanno denunciato una drastica riduzione dell’erogazione della formazione continua in azienda, paradossalmente proprio nel momento in cui ci sarebbe più bisogno. È il fondo Fort.Te che, per primo, ha lanciato il grido d’allarme, inizialmente scrivendo direttamente alla Sottosegretaria al Lavoro Francesca Puglisi, poi dalle pagine di un noto quotidiano.

Il fondo ha denunciato l’inefficacia dell’utilizzo della sola formazione a distanza. Infatti, questa modalità non permette di svolgere la parte pratica dell’attività, determinante soprattutto per le Piccole e medie imprese (PMI), che hanno da un lato esigenze peculiari, dall’altro scarse possibilità di proporre attività formative ai propri dipendenti, se non ricorrendo alle opportunità offerte dai vari fondi o Competence Center.

Eppure, queste stesse aziende possono continuare senza limitazioni l’attività produttiva: un controsenso, dal momento che entrambe le occupazioni riguarderebbero le medesime persone. Insomma, i dipendenti possono lavorare, ma non formarsi. Sarebbe, invece, proprio questo il momento di investire nella formazione: troppi sono i cambiamenti portati dalla pandemia.

I mezzi per consentire la ripresa di tale attività ci sarebbero: i lavoratori si potrebbero organizzare in piccoli gruppi, naturalmente rispettando tutte le norme legate alla sicurezza nei luoghi di lavoro, e il docente dovrebbe semplicemente attenersi alle medesime procedure. La presenza fisica di quest’ultimo in azienda è fondamentale, sia per adeguare pienamente i contenuti formativi alle esigenze specifiche dell’impresa sia per quanto riguarda le esercitazioni pratiche, anche con applicazione immediata di quanto si è appreso. Esse sono fondamentali per l’efficacia dei corsi.

Quanto pesa lo skill mismatch sulle imprese?

La formazione continua è importante da un lato per alzare la qualità delle competenze interne all’azienda, dall’altro per creare in house nuove figure professionali, che sul mercato ancora non esistono e che possono essere formate esclusivamente sul campo. Ma questa è davvero un’esigenza sentita anche dalle aziende? Sicuramente sì.

Nel 2020 Forbes ha denunciato come lo skill mismatch, in costante aumento, pesi come una vera e propria tassa sulle aziende, per il 6% del fatturato. Il 27% degli impieghi del 2022 sarà in lavori che ancora oggi non esistono. Ma è sulle aziende e non sul sistema educativo che grava tutto il peso di ciò. Sempre secondo la rivista Usa, la soluzione è quella di concretizzare e personalizzare sempre di più la formazione in azienda: proprio il contrario di quanto sta avvenendo ora.

Boston Consulting Group, nel report dal titolo Fixing the global skills mismatch, ha proposto la nascita di un nuovo patto sociale, in cui il settore pubblico metta a disposizione l’accesso universale alla formazione; le aziende offrano luoghi di lavoro più inclusivi e orientati alla formazione; i singoli lavoratori si dimostrino più disponibili alla formazione continua. Difficile, senz’altro, ma necessario.

La BCG offre anche buone notizie riguardanti il nostro Paese. Nel report intitolato Decoding global trends in upskilling and reskilling si evince come il 62% degli intervistati italiani dedichi tempo al proprio upskilling, il 70% al reskilling. C’è chi lo fa con programmi di autoapprendimento, chi grazie ai corsi organizzati in azienda, chi ancora con percorsi formativi online: resta il fatto che la velocità, sempre crescente, del cambiamento tecnologico nel mondo del lavoro, richiede grande capacità di adattamento. Oggi ci sono competenze che vengono ‘bruciate’ nel giro di pochissimo tempo e solo una formazione continua in presenza potrà permettere alle nostre PMI di restare competitive sul mercato.

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Chiara Pazzaglia

Bolognese, giornalista dal 2012, Chiara Pazzaglia ha sempre fatto della scrittura un mestiere. Laureata in Filosofia con il massimo dei voti all’Alma Mater Studiorum – Università degli Studi di Bologna, Baccelliera presso l’Università San Tommaso D’Aquino di Roma, ha all’attivo numerosi master e corsi di specializzazione, tra cui quello in Fundraising conseguito a Forlì e quello in Leadership femminile al Pontificio Ateneo Regina Apostolorum. Corrispondente per Bologna del quotidiano Avvenire, ricopre il ruolo di addetta stampa presso le Acli provinciali di Bologna, ente di Terzo Settore in cui riveste anche incarichi associativi. Ha pubblicato due libri per la casa editrice Franco Angeli, sul tema delle migrazioni e della sociologia del lavoro. Collabora con diverse testate nazionali, per cui si occupa specialmente di economia, di welfare, di lavoro e di politica.

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